Diary of the Dead – Le cronache dei morti viventi

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Per un regista che ha dedicato praticamente tutta la propria carriera ai morti viventi, rivitalizzare il genere che ha creato è sempre una sfida improba. George A. Romero, padre di tutti gli zombi, ci aveva in parte deluso con il moderno quarto capitolo della saga, La terra dei morti viventi, che con le sue ambizioni da kolossal finiva per perdersi in più punti. Diary of the Dead, uscito in patria quasi due anni fa e recuperato in Italia dopo il clamore del nuovo Survival of the Dead a Venezia, rappresenta invece una doppia sfida: tornare alle origini con una produzione indipendente, e calare la mitologia dei non morti nel mondo dell’informazione lampo e della cultura dell’immagine.



Mentre girano un horror low budget nel bosco, Jason e il suo gruppo di studio vengono raggiunti da una notizia che inizialmente prendono come uno scherzo: i morti tornano in vita, e stanno seminando il panico in tutto il mondo. Le segnalazioni sono dapprima sporadiche, ma in pochi minuti tutti i telegionali e i siti parlano dell’invasione dei morti viventi. Da qui parte una fuga verso la salvezza, ripresa in prima persona da Jason e dai compagni per documentare quello che ormai non è più un film dell’orrore, ma l’orrenda realtà.

Lo stile narrativo è solo apparentemente quello di un Rec o di un Cloverfield: Romero dimostra da subito di voler seguire la propria strada, e senza vergognarsi di essere pur sempre un sessantanovenne che ha iniziato in bianco e nero, esamina la tecnologia e il flusso di notizie senza facili conclusioni e con occhio clinico. Diary of the Dead riprende il concetto di Zombi, preoccupandosi di mettere a confronto la natura umana con quella dei non morti: sovrapponendole, la seconda sembra molto più “naturale” della prima. Romero si toglie lo sfizio di criticare le tendenze dei film di zombi più recenti (in primis quelli con i morti viventi che corrono urlando), ma non ha paura di sovvertire alcune regole base dell’immaginario che ha creato. Per la prima volta, ad esempio, non è necessario venire morsi da uno zombi per diventare uno di loro: è sufficiente morire. Un po’ come è sufficiente apparire per esistere, nell’era di Internet: non più contagio quindi, ma semplice emulazione.

Diary of the Dead fonde alla perfezione gli stilemi dell’horror classico con un’inaspettata modernità: Romero non si fa abbagliare dalla scelta del cast e per questo si affida a volti poco noti ma perfetti nelle parti. Riesce nel compito difficile di rendere credibile il film nel film, e mantiene la tensione intatta e altissima per un’ora e mezza. Un puro piacere per qualsiasi cultore, ma soprattutto un’importante lezione di cinema.

Voto 8

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Francesco Bernacchio

Appassionato di pop a trecentosessanta gradi, ama il cinema d'evasione, l'animazione e i film che non durino più di due ore.

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