Rubini e la sua favola contro i pregiudizi

Di Fabrizio Foligno
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Fuori una pioggia battente, in sala, una pioggia di flash per Sergio Rubini, Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Anna Falchi, il piccolo Guido Giaquinto e il resto del cast de L’uomo nero. Il decimo film di Rubini regista, racconta la storia di un uomo che torna nel suo paese natale, in Puglia, per dare l’ultimo saluto al padre. La notte trascorsa nella sua vecchia casa lo riporta indietro nel tempo, a quando era bambino, con il papà capostazione con aspirazioni artistiche e la mamma insegnante. Tra una battuta e l’altra, ecco cosa hanno detto Sergio Rubini e il nutrito cast di stelle nostrane sulla lavorazione del film.

Rubini, il suo decimo film da regista è ancora una volta un film legato alla sua terra d’origine, la Puglia.
Per me il film è più che altro un racconto legato alla ricreazione dei ricordi, alla ricostruzione di una vita di provincia, un dipinto, ecco. Ho scritto questo film insieme a Carla Cavalluzzi e Domenico Starnone, siamo partiti da spunti passati, da miei ricordi personali legati al mito del treno e alla figura del macchinista che lancia caramelle ai bambini, figura vera della mia infanzia. Infatti sia mio padre, che il padre di Starnone lavoravano nelle ferrovie e avevano aspirazioni artistiche, erano pittori dilettanti. Ma da questo punto di partenza, abbiamo temuto che il racconto fosse sfilacciato e bozzettistico, poi che ci fosse troppa trama che potesse soffocarne il sapore. Ma ci siamo affidati soprattutto al fatto che se uno non torna a se stesso, allora cosa racconta? Bisognava tornare alla provincia, al racconto autobiografico, che poi è quello in cui si finisce per mentire di più! Quando parti da te stesso finisci per raccontare non tanto quello che è realmente accaduto, ma quello che avresti voluto vivere e sentirti dire…  si finisce per realizzare una sincera menzogna.



Dal film traspare il suo piacere di lavorare con gli attori, che sono diretti benissimo. Emergono dettagli, emozioni…
Sergio Rubini: Io penso di avere un rapporto speciale con gli attori: mi piace fare delle prove prima e a seconda di queste riscrivo anche parti della sceneggiatura… la testo sui miei attori. E poi mi piace trascorrere del tempo insieme, penso sia un privilegio, voglio costruire un rapporto produttivo, spesso coinvolgo gli attori principali anche nel casting dei secondari. L’aspetto davvero bello è stato lavorare coi bambini, ne ho visionati più di dodicimila, ma ho trovato Guido Giaquinto dopo i primi trecento. Era perfetto per tutti, ma io non volevo prenderlo perché mi spaventava, era troppo bravo!
Valeria Golino: La cosa più importante per me è il privilegio delle prove, in cui aspetti nebulosi della storia e del personaggio si chiariscono. In questo caso ho lavorato con un grande direttore di attori, perché trasmette energia e una tensione artistica irresistibile! Con lui c’è una facilità di comunicazione rara, quasi non comunicando affatto, mi ha perfino costretta a recitare in un modo che io non conoscevo, in modo più pieno, più evidente, diciamo teatrale. Io tengo a proteggermi sottraendo, lui mi ha dato il coraggio di fare!
Riccardo Scamarcio: Io ho dovuto affrontare un personaggio dissacrante e divertente. È stato faticoso lavorare con lui. Per la scena della festa di compleanno di Gabriele abbiamo lavorato una giornata intera, facendo anche gli straordinari: c’erano trenta attori e sessanta membri della troupe con cinquanta gradi! Ma è stato un gioco straordinario!
Anna Falchi: Per me che sono anche produttrice, ho trovato con Sergio un modo di girare completamente nuovo. Tutte quelle inquadrature in un solo giorno! È stato fantastico, anche se faticoso, perché si crea un clima rilassato, amichevole, che ti permette di lavorare bene. Il ruolo, poi, è stato pensato per me: un’outsider, una romagnola trapiantata al sud e sposata col dentista del paese. Per me è stata una scommessa molto stimolante che mi ha permesso di tornare dopo molto tempo al cinema d’autore.

Che visione ha avuto del suo personaggio Valeria Golino?
Quello di Franca è il personaggio di una donna-moglie con i piedi ben piantati per terra: è pratica, emancipata, ha studiato, ma nello stesso tempo è terrigna, partecipa di piccoli miracoli giornalmente: parla coi defunti e lo racconta alla famiglia con naturalezza… incarna la spiritualità e il rapporto con la tradizione. Ha una doppia visionarietà. E poi è innamorata e gelosa del marito, si arrabbia, si preoccpa, litiga con lui, ma soprattutto lo ama.

Da La stazione, suo film d’esordio alla regia nel 1990 ad oggi, sembra quasi abbia costruito un cerchio che la riporta indietro al treno e quindi alle origini.
Rubini: Io sono andato via dal mio paese a diciotto anni e ho dovuto cambiare pelle, ho dovuto imparare a parlare quando ho iniziato a recitare. E quando si cambia modo di parlare, si cambia modo d’essere, ogni volta che tornavo a casa nessuno mi capiva più e io quasi non capivo loro. Quindi ho dovuto dare un senso nuovo alle cose, tornando indietro, rivisitando il passato. Sono ritornato alla mia infanzia e alla mia terra con un nuovo sguardo. Mi sono staccato dall’oppressione e ho raccontato il pregiudizio, anche il pregiudizio verso i propri genitori. Ad esempio Ernesto è più persona che padre, è invasivo e oppressivo. Il figlio vorrebbe che non fosse debole e lo detesta, perché manca di virilità, è ferito, frustrato, piange, quasi impazzisce, ma poi dopo anni ne scopre la vera natura, quasi cavalleresca, quando scopre il segreto che ha celato per una vita. Io ho cercato di raccontare tutto questo sotto forma di commedia, per fare un cinema dei sensi, delle emozioni, mi sono raccontato per quello che sono.

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