Ermanno Olmi è errivato al Lido. Con lui, l’amico Rutger Hauer e Michael Lonsdale, entrambi protagonisti de Il villaggio di cartone, evento speciale, presentato Fuori Concorso al Festival. L’ultima fatica dell’ottantenne regista bergamasco è stata accolta con un lungo e commosso applauso dopo la proiezione in anteprima per la stampa questa mattina. Tra l’altro i selezionatori del Festival avrebbero voluto Il villaggio di cartone in gara, ma è stato lo stesso Olmi a non accettare di competere per il Leone d’Oro, dopo aver ricevuto nel 2008 quello alla carriera. Il film racconta di un vecchio prete (Michael Lonsdale), parroco di una chiesa in procinto di essere dismessa perché non serve più. L’edificio viene così svuotato dei suoi oggetti di valore, quadri e addobbi, fino al Crocefisso che sovrasta la navata. Ma dopo l’iniziale senso di vuoto incolmabile, il sacerdote riesce a trovare, in quell’edificio spogliato da ogni bene, una sacralità mai percepita prima. La chiesa diventerà il rifugio dei miseri e dei senzatetto, che diventeranno, come dice il regista, “i veri ornamenti del Tempio di Dio”.
Dopo Centochiodi Ermanno Olmi aveva annunciato il ritiro dal cinema di finzione, volendosi dedicare solo ai documentari. Poi però una brutta caduta e oltre due mesi di immobilità lo hanno costretto a scrivere un nuovo soggetto, forse il destino?. E’ nato così Il villaggio di cartone, che riporta Olmi al Lido a cinquant’anni esatti dal suo debutto come regista con Il Posto. Ecco che cosa ha risposto l’autore alle nostre domande, ricordandovi l’uscita del film in sala dal prossimo 7 ottobre.
– Come definirebbe Il villaggio di cartone?
– “Quello che ho voluto portare sullo schermo è la vicenda umana di un vecchio prete che vede smobilitare la sua chiesa. Ma proprio mentre tutto sembra crollargli addosso, decide di accogliervi degli immigrati. Inizia così per lui un nuovo capitolo della sua missione sacerdotale. Non ho voluto fare una storia realistica ma un apologo, ambientato nell’arco di due giorni in una chiesa, ricostruita all’interno del Palaflorio di Bari”.
– Qual è la chiave di lettura con cui vorrebbe che lo spettatore si avvicinasse al suo film?
-“La chiave di tutto è il dialogo. Abbiamo in noi l’opportunità di risvegliare sentimenti che ci sono stati sottratti per parecchi anni. La carità e il perdono come la scoperta dell’altro. Il mio protagonista scopre tutto questo piuttosto tardi nella sua vita ma anche l’ultimo istante può essere l’inizio di un grande progetto futuro”.
– In molti continuano a chiamarla Maestro, ma lei ha sempre dichiarato di non amare questo termine. Cos’è che non le piace?
– “Ma come faccio ad essere un maestro se la mia forza è essere stato un allievo per tutta la vita. L’apprendistato è la condizione ideale per lasciarsi continuamente stupire”.
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