Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Non è la prima volta che Roman Polanski si cimenta nella realizzazione di un film girato in uno spazio ristretto. Anzi, a pensarci bene i suoi film migliori hanno questa caratteristica: da Rosemary’s Baby, con le pareti della casa in cui si movono Mia Farrow e John Cassavetes che sembrano stringersi man mano che la storia avanza, a Repulsion o al più recente La morte e la fanciulla, pellicola ambientata tutta (tranne un paio di scene) in un appartamento. E’ come se il regista franco-polacco riuscisse a rendere più autentici e credibili i suoi personaggi limitando loro lo spazio vitale e costringendoli entro un luogo ben circoscritto. Accade lo stesso anche in Carnage, tratto dalla pièce teatrale Le Dieu Du Carnage (in italiano Il Dio della Carneficina) di Yasmina Reza, che firma assieme a Polanski la sceneggiatura. Presentato In Concorso all’ultimo Festival di Venezia, da cui è uscito a bocca asciutta ma con il plauso di pubblico e critica, Carnage racconta in tempo reale la storia, amara e divertente insieme, di due famiglie che si incontrano per parlare di una rissa che ha coivolto i rispettivi figli durante l’ora di ricreazione. I quattro interpreti, (tre premi Oscar, Kate Winslet, Christoph Waltz e Jodie Foster e il più volte candidato John C. Reilly) sono perfetti nel rendere l’iniziale perbenismo borghese con cui si apre la vicenda, e sono altrettanto bravi a far sì che, con il passare del tempo, il loro volto muti espressione e lasci spazio a nevrosi e tensioni che elimineranno, una dopo l’altra, le sovrastrutture che la società gli impone.
Al di là dei fatti giudiziari che hanno coinvolto Polanski, c’è poco da discutere su quanto sia enorme il suo modo di dirigere un film. Impossibile, vedendo Carnage, non pensare a Hitchcock e al suo Nodo alla gola che il regista frencese evidentemente si è studiato nei minimi dettagli. Entrambi i film sono girati in tempo reale e all’interno di un appartamento, ma mentre il maestro del brivido era alle prese con un innovativo (per l’epoca, siamo nel 1948) esercizio di stile (il film è un insieme di undici piani sequenza, alcuni dei quali collegati tra loro, in modo da apparire come un’unica ripresa), Polanski gioca col montaggio (e Hervé de Luze è un vero maestro) e con le superfici ridotte per spogliare i suoi quattro protagonisti delle loro maschere sociali, portandone alla luce le ipocrisie, le invidie e i pregiudizi di cui sono schiavi.
Gli spazi angusti angusti dell’appartamento in cui si svolge l’azione vengono sfruttati al massimo e indagati minuziosamente grazie ai frequenti cambi di inquadratura, risultando ampliati, mentre la quarta parete crolla inesorabilmente dopo i minuti iniziali e porta lo spettatore direttamente nel salotto in cui il massacro borghese ha luogo. La verosimile gradualità con cui la situazione tra le due coppie precipita (fra quella composta da Waltz-Winslet e quella formata da Reilly-Foster abbiamo un debole per la prima, non ce ne vogliate) è sorprendentemente sottile e viene resa attraverso punzecchiature e battute al vetriolo che si scambiano, frenetici, i personaggi. Se all’inizio i membri di ciascuna coppia tendono a spalleggiare il proprio partner, man mano che passano i minuti le alleanze si disfano, se ne creano altre (le due donne contro i due uomini), e altre ancora, fino a far emergere i diversi tipi di solitudine di cui soffrono i quattro personaggi. Le musiche di Alexandre Desplat e i costumi di Milena Canonero rappresentano l’ennesima scelta azzeccata nella realizzazione di questo piccolo grande film che profuma d’autore.
Voto 8
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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