Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Distacco, freddezza e armonia. Il regista castigliano questa volta si avventura nel territorio del thriller, ispirandosi liberamente al romanzo di Thierry Jonquet Tarantula. Protagonista, un incupito Banderas, feticcio ritrovato a distanza di ventun’anni da Légami!, nei panni dell’eminente chirurgo plastico Robert Ledgard. Specializzato nella ricostruzione del volto delle vittime di ustioni, è anche impegnato in un rivoluzionario progetto di ricerca che si avvale di una componente transgenica, motivo per cui non viene visto di buon occhio dall’establishment scientifico. Ledgard sta lavorando alla creazione di una pelle artificiale, che resiste alle bruciature e alle punture d’insetto. Ma il suo progetto più personale è chiuso in una stanza della sua sontuosa dimora-clinica, El Cigarral, ed è una donna bellissima (Elena Anaya) che trascorre le sue ore in solitudine facendo yoga, creando bizzarre sculture e scrivendo sulle pareti.
Non vi diciamo di più anche se già da maggio, quando La pelle che abito è stato presentato In Concorso a Cannes, su molti siti web e sui altrettanti quotidiani si trovava l’intera trama del film con colpi di scena e dettagli rivelati, che ne hanno rovinato la visione a tanti. Tornando a noi, l’aspetto più affascinante del cinema di Pedro Almodóvar è che dopo quarant’anni riesce ancora a trovare un modo per spiazzare lo spettatore. Qui il regista spagnolo affida a un lungo, lunghissimo flashback, che dura quasi metà film, il compito di svelare legami e natura dei personaggi, ribaltando completamente le prospettive e le aspettative che fino a quel momento ci si era creati. La pelle che abito più che un horror è un melodramma dark a tinte forti in cui il grottesco raggiunge dei limiti inaspettati, nonostante ci si trovi in una pellicola di Almodóvar. Ma da esteta e stilista dell’inquadratura qual è, non vi aspettate di vedere carni dilaniate o zampilli di sangue. La tensione che ci tiene immobili davanti allo schermo a cercare di capire fino a che punto si spingerà Pedro questa volta, viene montata man mano attraverso i volti sfingei dei protagonisti, le maschere più o meno visibili che ciascuno di loro indossa e gli spazi geometrici in cui si muovono.
I temi trattati nel film, in fondo, sono quelli da sempre amati dall’autore: il fascino della trasformazione, la vendetta, l’identità personale transitoria, gli stravaganti legami familiari, l’onnipresente figura della madre e la sessualità esplorata in tutte le sue forme. Ma questa volta vengono trattati con un distacco e al contempo una ricercatezza che lasciano basiti. Il risultato è una pellicola di non facile fruizione che trascende ogni classificazione, esteticamente ineccepibile e fedele allo stile riconoscibile e personale del regista spagnolo. Certo l’eccessiva freddezza che luoghi e personaggi trasmettono lasciano trasparire l’idea di un lavoro maniacalmente meticoloso e poco di pancia. E il surrealismo estremo di alcune scene caratterizza situazioni ai limiti della perversione. Se questi possono essere considerati difetti…
Voto 7
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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