Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Prima di tutto vorremmo esprimere il nostro rammarico per non aver potuto assistere alla visione del film in lingua originale. Recupereremo anche quella senza dubbio, dato che la pellicola di Sorrentino con la parlata e, soprattutto con la risata, di Penn si gioca almeno un punto o due sul voto finale. Ora veniamo alle note positive, che poi riguardano gran parte del film. Tutto inizia con l’influenza musicale che i Talking Heads e David Byrne hanno avuto nella vita di Paolo Sorrentino… Cheyenne (Sean Penn), particolarmente somigliante al Robert Smith dei Cure per trucco e parrucco, è una rockstar ormai in pensione. Trasferitosi in Irlanda, dove vive in una casa con una piscina senz’acqua perché “nessuno ce l’ha mai messa”, improvvisamente è costretto a lasciare la sua vita per tornare negli Stati Uniti a causa della morte del padre. Una volta arrivato a New York, Cheyenne scopre che il suo vecchio, un ebreo ortodosso scampato ad Auschwitz, ha trascorso buona parte della sua vita a dare la caccia al suo aguzzino dei tempi del campo di sterminio. Sarà proprio la ex rockstar a portare a termine l’indagine lasciata incompiuta da suo padre, che lo catapulterà sulle strade di un’America iperrealista e strampalata.
Sean Penn punta al suo terzo Oscar, è evidente. Il suo personaggio in This Must Be the Place ricorda un po’ troppo da vicino quello già interpretato nel 2002 in Mi chiamo Sam, che però l’ha lasciato a bocca asciutta in quanto a statuette. Dunque, perché non fare un altro tentativo? In attesa di sapere se l’Academy si accorgerà del suo Cheyenne, vi diciamo che noi ce ne siamo accorti. Dà gusto osservare un personaggio scoprendo pian piano il lavoro che l’attore ha dovuto fare per portarlo sullo schermo, e vedendo Cheyenne salta subito all’occhio la costante ricerca di Penn, eterno insoddisfatto, che ogni volta tenta di superare se stesso entrando in personaggi difficili, affascinanti e rigorosamente borderline. Così anche questa volta ha dovuto ripartire da zero, o quasi, inventandosi una nuova camminata, una nuova risata e un soffio-tic con cui il suo alter ego si sposta un ciuffo ribelle tinto e cotonato dalla fronte. Ma Penn non è solo. Con lui c’è la radiosa Frances McDormand, moglie di Joel Coen e attrice straordinaria come e più del solito, e poi c’è Eve Hewson, figlia di Bono Vox, di quelle che inceneriscono con un solo sguardo.
Tante buone idee sufficientemente stravaganti per mostrare allo spettatore qualcosa di diverso, con una certa discontinuità narrativa che non disturba gli equilibri del film. Equilibri sottili che costellano una storia che cammina costantemente sul ciglio del precipizio del ridicolo ma senza mai guardare giù nel burrone. E che, proprio come fa Cheyenne, prosegue indisturbata nonostante sia consapevole delle stranezze che porta con sé. Ogni inquadratura sembra voler comprendere un tutto che arriva all’orizzonte e che lo supera con lo sguardo, andando oltre l’infinito. Il tutto, sulle note di una colonna sonora funzionale alla narrazione e orecchiabile, che sicuramente incontrerà il gusto di Cameron Crowe.
Voto 7
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