J. Edgar

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L’ultimo film di Clint Eastwood ci ha fatti uscire dalla sala dispiaciuti e di cattivo umore per un semplice motivo: non ci ha entusiasmati. Argomentando un po’ il giudizio su uno dei registi che ammiriamo di più in assoluto, potremmo dire che J. Edgar ci ha sfiorati per le oltre due ore di durata della pellicola, toccandoci davvero solo in alcune isolate scene. Una delusione parziale (intendiamoci siamo lontani dalla categoria dei brutti film) quella arrivata con questo suo ultimo lavoro, che però è stata sufficiente a farci annegare nelle perplessità mentre cercavamo di comprendere appieno il fulcro reale attorno al quale Eastwood ha voluto far ruotare la sua storia. Ed è arrivata la prima risposta: forse la nostra conoscenza del personaggio John Edgar Hoover non era sufficientemente approfondita per cogliere la tonalità con la quale Clint voleva far suonare il suo personaggio, unita al fatto che, non essendo americani, questa vicenda non fa parte del nostro background storico-culturale. Sapevamo che J. Edgar aveva fondato l’FBI (Federal Bureau of Investigation) e che ne era stato a capo per quasi cinquant’anni (dal 1924 al 1972), che aveva servito otto Presidenti degli Stati Uniti, da Calvin Coolidge a Richard Nixon e che aveva trasformato la sua creatura in un apparato di polizia capace di dare la caccia ai più temuti gangster tra cui John Dillinger o George Kelly. Sapevamo inoltre che era ossessionato dall’idea che i comunisti e i radicali potessero far vacillare l’equilibrio della sua America e che era stato l’artefice di riforme storiche quali l’archiviazione delle impronte digitali o l’istituzione di un’accademia nazionale per l’addestramento degli agenti. Eravamo anche a conoscenza delle voci che giravano sulla sua presunta omosessualità. Sapevamo, dunque, quello che più o meno sanno tutti sul conto di John Edgar Hoover, forse anche qualcosa in più dello spettatore medio che sceglie di vedere il film. Eppure non è bastato a entrare in sintonia con il personaggio. Ma chi era davvero costui? Una leggenda americana? Per i più conservatori sì, per gli altri, invece, un persecutore che inseguiva unicamente la sua personale e contorta concezione della sicurezza nazionale, dando la caccia ai comunisti, ai dissidenti e agli scomodi rappresentanti delle minoranze più che alla malavita organizzata e ai criminali.



Eastwood (appoggiandosi allo sceneggiatore Dustin Lance Black, Premio Oscar per Milk) più che il J. Edgar pubblico ci racconta quello privato, l’uomo ossessionato dalla volontà di difendere il proprio paese da tutto ciò che si dimostrava in qualche modo nuovo o diverso e il cui comportamento compulsivo spesso ha avuto la meglio su quello razionale (al suo nome sono stati accostati sospetti di vario genere nel corso delle indagini relative all’assassinio di Martin Luther King e per anni è stato definito il braccio operativo del maccartismo colpevole, a detta di molti, di aver contribuito a diffondere il clima di terrore durante la cosiddetta “caccia alle streghe”). Ed è qui che la regia di Eastwood si supera, nel raccontare i pochi legami affettivi del funzionario che si è fatto strada grazie a una minuziosa attività di dossieraggio sulle principali personalità di spicco dell’epoca, ricattando e tenendo tutti in pugno che però, nel privato, non si fidava di nessuno se non di sua madre (qui interpretata da una divina Judi Dench), della sua segretaria (Naomi Watts) e del suo presunto amante-collega Clyde Tolson (Armie Hammer). D’altronde il cinema di Eastwood ha sempre raggiunto livelli altissimi quando ha posto al centro del racconto le relazioni tra i personaggi (pensate a Million Dollar Baby, Mystic River o Gran Torino), mentre si è mantenuto su toni più bassi nell’affrontare temi storici o didascalici (Flags of Our Fathers, Letters from Iwo Jima o Invictus).

L’occhio dell’ottantenne Clint solo apparentemente non giudica, e il suo punto di vista su Hoover si mostra chiaro sin dall’inizio, attraverso insinuazioni che pian piano acquistano concretezza. Vediamo Leonardo DiCaprio e gli altri attori invecchiare e ringiovanire tante, forse troppe volte, in continui salti temporali che appesantiscono la fruibilità del film. Vale la pena, poi, spendere due parole sul make-up degli attori, che per una buona metà del film appaiono in versione “anziana”: se il trucco di Naomi Watts e DiCaprio risulta passabile (anche se l’eccesso di cerone imbarocchisce parecchio la performance di quest’ultimo facendolo assomigliare un po’ troppo ad un vetusto Marlon Brando), quello applicato sul volto di Armie Hammer è ai limiti del ridicolo, rendendo l’attore più simile alla mummia di Tutankhamon che non a un uomo avanti con gli anni. Meglio chiudere un occhio poi, anzi un orecchio, sul doppiaggio italiano, assolutamente riprovevole. Straordinariamente azzeccata e dolcemente malinconica, invece, la colonna sonora del film, composta dallo stesso Eastwood, che sottolinea perfettamente debolezze e ambiguità del suo protagonista.

Una curiosità per quanti volessero approfondire la filmografia sul personaggio interpretato qui da Leonardo DiCaprio. Non é la prima volta che Hoover entra nei copioni di Hoolywood: nel 1995 Oliver Stone aveva affidato a Bob Hoskins il ruolo dello storico direttore dell’ FBI ne Gli intrighi del potere, mentre nel 2000 Ernest Borgnine ha diretto Hoover, una sorta di monologo in cui veste egli stesso i panni di J. Edgar.

Voto 6

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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