Cesare deve morire

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…dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior“.



“Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata ‘na prigione“.

Molto di rado, specialmente in Italia, vengono realizzati dei film che meriterebbero un saggio di trecento pagine. L’Orso d’Oro a Berlino 2012 (l’Italia non ne portava a casa uno da ventun anni. L’ultimo fu per La casa del sorriso del grandissimo Marco Ferreri, nel lontano 1991) ai Fratelli Taviani è uno di questi. Con Cesare deve morire, infatti, siamo di fronte all’essenza di ciò che la nostra cinematografia è in grado di offrire al mondo, un’opera di cui il sommo Pier Paolo Pasolini sarebbe stato orgoglioso.

Pochissimi soldi, pochi mezzi (è stata la prima, riuscitissima, avventura dei Taviani in digitale) e nessuna distribuzione sino a che un “wise fool” di nome Nanni Moretti non ha deciso di rischiare, come sempre, in prima persona, facendolo uscire in 40 copie. Numero ridicolo per l’Europa, esageratamente alto per un film d’autore nell’ignorante Italia del 2012, in cui i cinepanettoni escono in 600 sale e i documentari (attenzione, Cesare…è molto di più!), all’esterno del circuito festivaliero, non vengono visti affatto.

Ambientato tra le mura di Rebibbia, in una sezione dal nome raggelante (Fine pena mai), è la storia di un gruppo di eccezionali detenuti teatranti che, mentre stavano facendo le prove per I sei personaggi in cerca d’autore, vengono persuasi dai Taviani ad affrontare la difficile scrittura del Bardo, dando vita al più (emotivamente) sanguinante, intenso, multidialettale Giulio Cesare che abbiate mai visto sul grande schermo.
Impossibile non tributare l’onore che meritano all’intenso Bruto donatoci da “Sasà” Salvatore Striano, lui stesso ex detenuto votato all’arte che già abbiamo ammirato in Gomorra, Gorbaciof, Fortapàsc e Napoli Napoli Napoli ed al sommo Cesare incarnato mirabilmente da Giovanni Arcuri.

Molto, troppo, si dovrebbe scrivere. Della colonna sonora, del bianco e nero con quelle sfumature di blu più o meno intenzionali – come raccontavano i registi in conferenza stampa – del lavoro di cesello fatto dai Taviani e dal bravissimo Fabio Cavalli, regista della Compagnia ex detenuti Teatro Libero di Rebibbia, grazie alla cui lungimiranza questo ambizioso progetto ha potuto vedere la luce, del coraggio di pubblicare nei titoli di coda, accanto ai nomi, ai volti dei protagonisti, il numero di anni di carcere cui sono stati condannati. Impressionante quanto necessario.
Meglio limitarsi, quindi, a consigliarvi di vederlo, rivederlo, farlo vedere a tutti. Una pellicola che nasce già come un classico intramontabile. Da non perdere.

Voto 8

Recensione a cura di Massimo Frezza
(www.binarioloco.it)

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