Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Un Bond sofisticato, a tratti quasi un non-Bond questo ventitreesimo film della serie dedicata all’Agente 007 che cade proprio nel cinquantesimo anniversario dell’esordio cinematografico del personaggio creato da Ian Fleming. La pellicola di Sam Mendes (American Beauty, Era mio padre, Revolutionary Road) si pone al limite estremo del franchise più longevo della storia del cinema, da un lato come un vero e proprio omaggio alla saga, dall’altro come a voler apportare a quest’ultima una ventata d’aria fresca: un po’ come dire che il Bond personaggio può adattarsi ad ogni epoca, non importa se il nemico da sconfiggere non è più un’associazione criminale, un intero paese (la ex Unione Sovietica?) o il delirio di un pazzo che vuole conquistare il mondo. In quest’ottica, Bond si troverà a dover procedere in un modo diverso dal solito per sconfiggere il cattivo di turno (un ciberterrorista), nonostante non gli manchino occasioni per tirare pugni, usare la sua fedele Walther PPK e andare su e giù per il mondo: Istanbul, Scozia, Macao e Londra sono le mete scelte come location per questo episodio. Ma è in Turchia che tutto ha inizio.
Dopo il totale fallimento di un’operazione ad Istanbul, James Bond risulta disperso e viene ritenuto morto. Nel frattempo, a seguito di una fuga di notizie, le identità di tutti gli agenti operativi dell’MI6 vengono rese pubbliche su Internet. A seguito dell’accaduto il governo britannico chiama M a rispondere delle proprie responsabilità. Proprio quando è lo stesso servizio segreto ad essere attaccato, Bond ricompare e M lo incarica di rintracciare Raoul Silva, un pericoloso criminale con il quale ha una questione personale aperta. Seguendo una traccia che lo aveva portato da Londra al Mar Cinese Meridionale, Bond vede la sua lealtà messa a dura prova da dei segreti che M nasconde sul suo passato.
Con un ritmo frenetico, una colonna sonora ispirata, ed elegantissimi titoli di testa che chiudono la scena migliore di tutto il film (i primi dieci minuti che tolgono letteralmente il fiato), questo ventitreesimo Bond risulta essere sì un action, ma anche una pellicola divertente e allo stesso tempo introspettiva, che si spinge dove nessuno mai aveva osato prima, e cioè a rovistare nell’infanzia tragica di 007 (si sente odore di Quarto potere nella seconda metà del film). Se a questo si aggiunge che il villain di turno (un Javier Bardem così viscido e perverso è difficile da dimenticare) è smaccatamente gay e che in un paio di scene flirta con “James” (lo chiama così), si comprende meglio il fattore “novità” di questo Bond che, di fatto, non ci si aspetta. La sceneggiatura degli storici Neal Purvis e Robert Wade (già autori di Casino Royale e Quantum of Solace) con il contributo fondamentale di John Logan, penna di punta della Hollywood attuale (suoi gli script de L’ultimo samurai, The Aviator, Rango, Hugo Cabret, Lincoln e Noah, solo per citarne alcuni) gioca sul fattore sorpresa per l’intera durata del film, tratteggiando un nuovo Bond che nelle loro mani diventa un individuo profondamente umano, oscuro e tormentato come non avremmo mai immaginato.
E veniamo al cast, la punta di diamante della pellicola. A spiccare una spanna sopra gli altri è il villain interpretato da Javier Bardem (se lo avete apprezzato in Non è un paese per vecchi, adorerete il suo Silva), che in una scena in particolare ricorda molto da vicino, sia per intensità che per situazione, Hannibal Lecter, seguito dalla effettiva bond girl di Skyfall, la attempata ma assolutamente efficace Judy Dench. Interessanti anche il ruolo di Ralph Fiennes nei panni di un agente governativo e ambiguo rivale politico di M e del giovanissimo Ben Whishaw in quelli di… Non possiamo dirvelo, altrimenti vi roviniamo la sorpresa. Senza dimenticare Albert Finney che interpreta un personaggio dal tepore rassicurante che si affaccia nel finale. Invece non ci ha affatto convinti la sexy Bérénice Marlohe, la sua Séverine non ha capo né coda e rimane solo una figura di contorno, al contrario della molto più incisiva Naomie Harris (la Tia Dalma ne I pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo). E poi c’è Craig che riesce a scalfire la dura scorza di Bond mostrandolo allo spettatore sotto una luce differente, pur non perdendo i vizi che lo hanno reso celebre, dalla Aston Martin al martini “shaken, not stirred” (agitato, non mescolato), senza dimenticare le belle donne. E a dar luce e tenebre a questo neo-Bond, ci ha pensato Roger Deakins, lo storico direttore della fotografia dei fratelli Coen, che in Skyfall riesce nell’intento di apportare spessore e densità ad ogni singola scena.
La missione di Sam Mendes può dirsi dunque piacevolmente compiuta e, anche se il suo Bond è molto “christophernolanizzato”, funziona. E allora buon compleanno, 007.
Voto 8
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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