La collina dei papaveri

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Presentata lo scorso anno al Festival Internazionale del film di Roma nella sezione Alice nella città, ultima fatica del leggendario Studio Ghibli e frutto della collaborazione tra la scrittura di Hayao Miyazaki e la regia del figlio Goro (già autore de I racconti di Terramare), La collina dei papaveri nasce da una serie manga giapponese apparsa negli anni Ottanta e racconta la storia di Umi, una ragazza che vive in una tradizionale casa giapponese in cima a una collina affacciata sul mare, trasformata in una piccola pensione femminile popolata da sei colorate figurine di donne. Ogni mattina Umi si sveglia prima di tutte ed esce in giardino a issare la bandiera dei marinai con un messaggio rivolto alle navi che passano ai piedi della collina: è un messaggio nostalgico al padre, scomparso nella guerra di Corea. Un giorno a scuola conosce Shun, un giovane scapestrato e combattivo, caporedattore del giornale scolastico e membro del Quartier Latin, un vecchio edificio in cui gli studenti si riuniscono per diverse attività ricreative e discutono del loro futuro. Quando la struttura rischia di essere demolita, Umi si unisce al gruppo e a poco a poco tra lei e Shun nasce un tenero sentimento d’amore, mentre dal passato riaffiorano ricordi sbiaditi e sconvolgenti…



Ambientato a Yokohama nel 1963, l’anno prima delle Olimpiadi di Tokyo, nel momento in cui il Giappone inizia il suo cammino per uscire dalla devastazione della Seconda Guerra Mondiale per avviarsi verso la modernizzazione, la storia prende spunto dall’amore tra Umi e Shun, figli del boom economico, “i giovani d’oggi”,  per descrivere la prima generazione di un “Nuovo Giappone”, una generazione che lotta per costruire un futuro nuovo cercando allo stesso tempo di non perdere i legami con la tradizione e col passato millenario del paese: mentre i treni aprono gallerie sul fianco della collina dei papaveri, le automobili si moltiplicano in file interminabili lungo le strade ancora vecchie, i tram e le persone affollano la città che sembra un eterno cantiere, dalla città scompaiono per sempre i martin pescatori e la gente ha pochi soldi ma grandi speranze per il futuro. È l’inizio di una nuova Era in cui qualcosa però sta per essere irrimediabilmente perduto. L’incontro tra i due adolescenti simboleggia il presente della Storia, in cui passato e futuro si intrecciano: Umi rappresenta la tradizione, il passato, con la sua grande famiglia matriarcale dominata dalla figura della nobile nonna, col suo rito codificato della colazione tradizionale, con la sua serietà e la sua purezza; Shun rappresenta il futuro, col suo atteggiamento scettico verso la società e gli adulti, con la sua volontà di cambiare le regole e di crescere in fretta, con la sua determinazione di salvare il Quartier Latin da un futuro che cancella tutto in nome del progresso. È proprio Umi che decide di aiutare i ragazzi a ripulire e ristrutturare il vecchio edificio per evitare che venga abbattuto, è lei che riesce a coinvolgere anche le studentesse, rendendo il lavoro un momento magico di condivisione e di amicizia, è lei che mostra la necessità di salvaguardare il passato per traghettarlo nel futuro. E il Quartier Latin, ancor più della collina dei papaveri, è il centro, anche simbolico, di tutto il film: simile a uno di quei luoghi fantastici e stravaganti dei film di Miyazaki senior, diventa una città incantata, un castello errante, anche se Goro non spinge il pedale nella direzione di una poesia leggera e di un’astrazione delicata, ma rivolge la sua attenzione alla Storia, alla realtà che cambia, alla vita quotidiana, riversando nel film la sua esperienza personale nel movimento studentesco giapponese degli anni Settanta. E così il processo di salvataggio del passato dal naufragio della storia diventa per i protagonisti anche un processo di scoperta di sé e delle proprie radici, della propia identità e del proprio destino.

Questa attenzione per la storia si riflette anche nella scelta di un disegno più preciso e realistico, più simile ai quadri fiamminghi o alle stampe tradizionali di Hiroshige che ai voli di fantasia dei film di Miyazaki padre (forse più vicino alla ricostruzione storica di Porco Rosso), ricco di dettagli quotidiani e minuti (come la precisa rappresentazione della colazione, o della nuova Tokyo in cantiere), dai colori brillanti e saturati della collina dei papaveri e dei fumi delle ciminiere della zona industriale a quelli tenui e un po’ grigi della realtà domestica e metropolitana, o ancora desaturati e sfumati quando descrivono il mondo dei ricordi e delle illusioni. Un rilievo particolare è dato alla colonna sonora di Satoshi Takebe, sorridente e nostalgica, ispirata al pop melodico dei primi anni Sessanta, che percorre tutto il film e ne colora i momenti più delicati. Tutto nella pellicola è venato di una sentimentalismo un po’ languido, di un gusto per l’intreccio e i colpi di scena, ispirato anche ai manga per ragazze (da cui il film è tratto) o alle telenovelas (con sottile ironia i due protagonisti affermano esplicitamente che la loro storia sembra “una telenovela di quart’ordine”), ma soprattutto di una sottile malinconia per il tempo che scorre e il mondo che cambia, e nello stesso tempo di una tenera speranza per un futuro migliore. Tutto invita a riflettere e sorridere, e in alcuni momenti a versare qualche lacrimuccia.

Voto 8

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