Ballata dell’odio e dell’amore

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1937. La Spagna è lacerata dalla Guerra Civile. In un circo per bambini, il Pagliaccio Triste viene interrotto nel bel mezzo del suo show e reclutato con la forza da un gruppo di repubblicani. Mentre indossa ancora il suo costume di scena, viene mandato in battaglia contro i soldati del generale Franco, dove da solo, armato di un machete, massacra un intero plotone. Ferito ad una gamba, viene arrestato e condannato ai lavori forzati per la costruzione della ciclopica Abbazia della Santa Croce della Valle dei Caduti, vicino Madrid. Il giovane figlio Javier organizza un attentato dinamitardo per liberarlo, ma nello scoppio il padre muore e il ragazzo è abbandonato al suo destino, crescendo con il compito di vendicare il genitore.
1973. La Spagna vive gli ultimi giorni del regime franchista. Javier, ormai grande, è condannato dal destino ad essere il Pagliaccio Triste in un circo, dove incontra una girandola di personaggi assurdi, tra cui Sergio, il Pagliaccio Sorridente, con cui dovrà dividere il palco e l’amore della bella acrobata Natalia. E il triangolo amoroso si trasforma presto in una feroce battaglia tra i due clown.



Dopo le rarefatte atmosfere di Oxfors Murders – Teorema di un delitto, con Ballata dell’odio e dell’amore il regista basco Alex De La Iglesia ritorna nel regno del grottesco, di cui è stato incontrastato dominatore con pellicole come La Comunidad e Crimen perfecto, realizzando un film inclassificabile, non facilmente definibile, che si ama o si odia senza riserve, vincitore del Leone d’argento per la regia e dell’Osella per la sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia del 2010. Potrebbe essere un melò à la Almodóvar
sull’amore, sul desiderio e sulla morte: racconta il classico triangolo amoroso, calato nel mondo del circo, con un esplicito omaggio a Fellini, ma senza quella poesia malinconica, più vicino a Pagliacci di Leoncavallo, il celebre melodramma, dove tutto è eccessivo e infuocato, fino al finale tragico. Ma qui la storia d’amore è solo un pretesto, una cornice narrativa per una riflessione sul dolore. I due pagliacci in realtà sono due alter ego, due volti della stessa persona, rappresentano le due anime inseparabili di un unico paese e il film diventa quindi una metafora della Spagna, della sua storia maledetta e tragica, in cui Ironia e Tragedia si fondono nel Grottesco. Il quarantennio di dittatura del generale Franco è visto attraverso lo sguardo straniato di un Pagliaccio, non a caso il Pagliaccio Triste, condannato dal suo ruolo alla sofferenza e all’umiliazione: persa ogni sfumatura poetica e struggente, diventa simbolo di tutta la Spagna, dell’uomo di fronte alla Storia (memorabile la sequenza in cui Javier fuggitivo, ridotto a vivere come una bestia, è umiliato e ridotto a fare da cane da riporto durante una battuta di caccia e morde la mano del generale Franco). I due protagonisti sono condannati alle maschere del Pagliaccio Sorridente e del Pagliaccio Triste: Sergio viene sfregiato dal rivale con un taglio che fissa per sempre sul suo volto un sorriso cattivo, Javier si sfregia da solo con un ferro da stiro per compiere il suo destino di vendetta. La Storia li ha marchiati per sempre. Quando i due pagliacci si guardano, in silenzio, il pianto e il riso coincidono e il film riesce a raccontare il destino di un intero paese, la tragedia di una nazione, quella della storia che priva gli uomini della loro vita condannandoli ad una smorfia.

Tutto il film è altamente simbolico, costruito su una fitta rete di simboli e citazioni (oltre a Fellini e Tim Burton, il pirotecnico finale richiama Intrigo internazionale di Hitchcock). Tutto è eccessivo, paradossale al limite del trash: la colonna sonora, che mescola grandi successi spagnoli degli anni Sessanta e Settanta e Raffaella Carrà; la fotografia molto contrastata, con tinte che evocano le foto di allora, ingiallite, con colori a volte saturi, a volte ai limiti del bianco e nero da graphic novel. Tutto è bestiale, tutto è carne e sangue.

Voto 7

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