Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Nel 1946, il musicista inglese Benjamin Britten concepisce The Young Person’s Guide to the Orchestra, breve composizione di natura squisitamente didattica il cui scopo era principalmente incoraggiare all’ascolto del repertorio classico gli ascoltatori più giovani, mettendo in risalto le diverse componenti di un arrangiamento e ciascuna classe di strumenti in esso introdotta.
Musica per bambini, insomma, ma non musica da bambini, un atto di considerevole rispetto nei riguardi del pubblico infantile e una risposta intelligente e propositiva a chi confonde tenera età con mancanza di criterio, a chi crede che, sostanzialmente, “ai mocciosi si possa propinare di tutto”, sottovalutando pericolosamente la loro capacità di giudizio.
E’ con questo commento musicale che Wes Anderson decide di aprire il suo Moonrise Kingdom, e la dichiarazione di intenti non potrebbe apparire più esplicita: il regista di Rushmore fa propria una volta per tutte la lezione di François Truffaut – in primis, del suo Gli anni in tasca, modello inconfutabile del film – e, proseguendo lungo quella prospettiva ad altezza di bambino vista nell’ottimo Fantastic Mr. Fox, plasma un’opera che è innanzitutto un’ode alla purezza dell’infanzia e alla fragilità di quel periodo a ridosso della pubertà, nel quale ogni cosa sembra ancora possibile.
Con i suoi giovanissimi protagonisti Sam e Suzy, conosciutisi durante una messinscena amatoriale del Noye’s Fludde (guarda caso, un’altra creazione di Britten) e travolti immediatamente da un sentimento in miracoloso equilibrio fra candore preadolescenziale e timide imitazioni di approcci sessuali, Wes Anderson ci invita subito a schierarci contro l’establishment di un mondo adulto palesemente smarrito nelle proprie paturnie e nei propri fallimenti, regredito, fra tradimenti e frustrazioni, ad uno stadio assai meno evoluto della lucida incoscienza dei figli. A circondare e a tentare di scongiurare la “fuga d’amore” dell’inutile sottotitolo italiano sono infatti una potestà genitoriale assente (Sam è orfano), instabilmente surrogativa – dal mesto caposcout di Edward Norton al poliziotto complice di Bruce Willis, passando per la perfida istitutrice di Tilda Swinton – o inetta e disfunzionale, con una madre fedifraga (Frances McDormand) che comunica con la famiglia servendosi di un megafono, oltre a un padre (Bill Murray) distaccato e inaridito: non resta quindi che riparare in una piccola, selvaggia insenatura non lontana dal campeggio e da casa, ribattezzarla Moonrise Kingdom e giocare a diventare grandi prima che si scateni la tempesta. In tutti i sensi.
Il talentuoso Wes Anderson è senza dubbio il più riconoscibile e caratteristico cineasta americano della sua generazione, un autore dagli inconfondibili e reiterati marchi di fabbrica che, già dall’esordio di Un colpo da dilettanti, ha saputo dare vita ad un microcosmo pop che pare obbedire a regole tutte sue e ad una cifra stilistica che, esasperando il proprio manierismo, ha coniato un linguaggio uguale a nient’altro, con le sue perentorie panoramiche a schiaffo, i suoi finali in slow-motion, il suo uso ricorrente della rostrum camera, e via dicendo. Moonrise Kingdom, prevedibilmente, non si distacca da questa tradizione tematica ed estetica, e il fatto in sé costituisce tanto un vantaggio quanto un ostacolo per la dimensione artistica del giovane autore texano: da una parte si mantiene quella coerenza espressiva con cui si distingue dallo standard e raggiunge un alto livello di confidenza con lo zoccolo duro dei propri seguaci, pronti, ogni volta, a trovarsi di fronte al consueto appuntamento con il loro regista di riferimento; dall’altra – ed è una realtà con cui anche il fan più strenuo è costretto a confrontarsi – si arriva alla conclusione che un cinema ormai decodificato come quello di Wes Anderson non riesca più a sorprendere e ad offrire niente di nuovo, limitandosi a riproporre uno schema di bizzarrie che già a metà della sua produzione sembrava aver mostrato la corda.
E’ anche vero che, con il tempo, la tecnica si è affinata, i giochi di macchina si sono fatti più elaborati (la presentazione iniziale, quasi una dissezione dell’abitazione dei Bishop, è di un gusto impareggiabile) e la concezione dell’immagine ha abbandonato la rigidità degli esordi. Tralasciando almeno in parte una visione strettamente autoriale della pellicola, di fatto Moonrise Kingdom non può non affascinare, con il suo gentile cromatismo autunnale smaccatamente andersoniano che contrasta con il contesto estivo della vicenda, con il suo potere contagioso di trasformare anche il minimo dettaglio in qualcosa di iconico (a cominciare, come al solito, dai costumi), con la sua abilità di districarsi ironicamente fra gli stereotipi più tradizionali, dalla natura tipicamente dickensiana del personaggio della Swinton e del prefinale ai canoni della Nouvelle Vague, con frequentissime citazioni di Il bandito delle ore undici (non va dimenticato che la storia è ambientata nel 1965, anno d’uscita del classico di Godard).
Moonrise Kingdom resterà con tutta probabilità il punto di partenza ideale per avvicinarsi al cinema di Wes Anderson, ed è ad oggi il suo film più amato, in particolare in patria, dove viene data quasi per certa la sua presenza agli Oscar 2013.
Voto7
Recensione a cura di Andrea Bosco
www.binarioloco.it
Un amore preadolescenziale raccontato attraverso lo stile nostalgico e inconfondibile di Wes Anderson.
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