Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Presentato In Concorso all’ultimo Festival di Venezia, dove ha ricevuto Leone d’argento per la Miglior Regia e Coppa Volpi per il Miglior Attore (ex-aequo per Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix), l’ultima fatica di Paul Thomas Anderson (Boogie Nights, Magnolia, Il petroliere) sbarca nelle nostre sale. Siamo nei primi anni Cinquanta, la Seconda Guerra Mondiale si è da poco conclusa e l’America attraversa l’epoca delle grandi ambizioni e della crescita senza precedenti, ma anche di un senso di sdradicamento e di ansia per un futuro tutto da riscrivere. In questo contesto, si innestano e si incrociano le storie di un reduce di guerra, Freddie (Joaquin Phoenix, che meriterebbe un Oscar solo per il modo in cui fa incedere il suo personaggio), sbandato e alcolizzato quanto incapace di trovare una giusta collocazione in una società che da dura e incerta è diventata promettente e radiosa, e Lancaster Dodd (Seymour Hoffman), scrittore, medico, filosofo e fondatore di un movimento spirituale del quale Freddie entra a far parte. Lancaster, che nei suoi deliri di onnipotenza è affiancato da moglie (la bravissima Amy Adams) e figli, si pone sin dal principio come una figura dominante nei confronti del suo adepto, fino a divenire una presenza fondamentale di cui Freddie non potrà più fare a meno. Ma anche Dodd presto si renderà conto che non riesce a stare lontano dal suo discepolo.
La vicenda drammatica e coinvolgente raccontata da Anderson, analizza attraverso ritratti puntuali e autentici i desideri e le esigenze spirituali della società americana all’alba di una nuova era. La stessa in cui ottimismo e consumismo la fanno da padrone e dove, per placare inquietudini e insoddisfazioni, la nascita di sette e gruppi spirituali fungevano da ancora di salvezza, da cibo per le anime di tutti quegli eroi di guerra tornati sì vittoriosi, ma stanchi e privi di ogni punto di riferimento. Le performance dei due protagonisti tolgono letteralmente il fiato e quella di Amy Adams non è da meno. Che la “Causa”, questo il nome della dottrina professata da Lancaster, corrisponda o meno nella realtà a Scientology, ci interessa fino a un certo punto, perché la magia del film, che non è un documentario, va ricercata nel rapporto che si instaura tra discepolo e maestro, fatto di piccoli gesti e di profonde manifestazioni. Da questo punto di vista The Master è un’opera riuscita in pieno, che riporta sotto i riflettori uno dei temi centrali della cinematografia di Anderson, ovvero il rapporto-conflitto tra padre e figlio (già presente in modo imponente nei suoi lavori precedenti) che questa volta esce dai binari nel corso della narrazione e si trasforma qualcosa di diverso e ancora più complesso.
Avvalendosi della magistrale fotografia di Mihai Malaimare Jr. e di una suggestiva colonna sonora composta da Jonny Greenwood dei Radiohead, Anderson riesce a cogliere e a evidenziare tutto il fascino delle location, dei primi piani e dei campi lunghi, grazie soprattutto all’impiego della pellicola a 65mm (contro i 35 che defiiscono lo standard: l’utilizzo di una pellicola larga il doppio del normale produce immagini di gran lunga più spettacolari). Questo formato ormai desueto e molto in voga nella Hollywood degli anni Cinquanta (lo stesso di Lawrence d’Arabia, 2001: Odissea nello spazio, Tutti insieme appassionatamente e dell’Amleto di Kenneth Branagh), conferisce al film un che di epico e maestoso. Ma The Master ha anche un evidente difetto: sopraffatti da tanta grandezza, arriva il momento in cui ci si rende conto che sullo schermo sta passando sì qualcosa di molto valido, sia a livello tecnico che formale, ma anche con poco cuore. E’ una pecca significativa, visto che Anderson è considerato uno dei più validi registi sulla piazza, ma la mancanza di pancia che si avverte in The Master ne condiziona irrimediabilmente la fruizione. E’ il motivo per cui tutta la tensione emotiva della storia ricade sulle spalle del formidabile cast che il regista americano ha a disposizione e che, incredibilmente, riesce a reggere un peso tanto gravoso.
Curiosità tecniche sul formato in cui è stato girato il film
Circa tre quarti di The Master è stato girato utilizzando la pellicola a 65 mm, il resto nel tradizionale 35mm. Nonostante ultimamente si sia tornato a parlare di 65mm per la diffusione dei cinema IMAX, ciò non vuol dire che il film di Anderson sia stato ideato per essere proiettato sugli schermi che supportano questo sistema di proiezione. Le pellicole concepite per gli IMAX infatti vengono girate in 65mm e stampate in 70mm, con i fotogrammi orizzontali e quindici perforazioni sul lato lungo (l’aspect ratio è 1.44:1 contro i 2.20:1 del 65mm). Per The Master, invece, i fotogrammi sono stati stampati verticalmente sulla pellicola a 70mm, con cinque perforazioni sul lato corto. Di conseguenza sono molto più ampi di quelli su pellicola a 35mm, ma più piccoli dei fotogrammi per IMAX.
Voto 7
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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