Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Un bambino nostalgico che tenta il ritorno alle origini. C’è questo, soprattutto, dietro Frankenweenie, nato dall’idea di riprendere il corto live action realizzato dallo stesso Burton nel 1984 per renderlo un lungometraggio animato in stop motion. Così a distanza di quasi trent’anni il regista di Burbank ha rispolverato i disegni dei personaggi creati all’epoca, riadattandoli e ideandone di nuovi per questo Frankenweenie in 3D, che ha già conquistato una nomination agli Oscar come Miglior Film d’Animazione.
La storia è la stessa del corto dell’84: dopo aver perso il suo cane Sparky in un incidente, il giovane Victor sfrutta il potere della scienza per riportare in vita il suo migliore amico. Inizialmente, Victor cerca di nascondere a tutti questa sua creazione, ma quando Sparky esce allo scoperto, i compagni di classe del ragazzo, gli insegnanti e l’intera città scopriranno il suo segreto. La vicenda è ambientata a Burbank, città natale di Burton, alla fine degli anni Cinquanta (e ricorda tantissimo il sobborgo che fa da sfondo a Edward mani di forbice).
In Frankenweenie c’è tutta la poetica di Burton, il suo modo di approcciarsi al cinema e alle storie “un po’ strane” che da sempre rappresentano il suo marchio di fabbrica. C’è il capovolgimento degli schemi classici della fiaba, la vita e la morte che diventano entità tangibili, (in questo caso anche manipolabili), l’emarginazione sociale, la solitudine e gli attacchi violenti ai valori del perbenismo borghese. Ma c’è anche molto di più visto che ci troviamo davanti alla pellicola più personale del regista, in cui la componente autobiografica è davvero profonda e molti dei personaggi che la abitano sono liberamente ispirati ai suoi miti personali. In particolare il professore di scienze, Mr Rzykruski (un omaggio a Vincent Price e Martin Landau, quest’ultimo doppiatore del personaggio nella versione originale), ma anche la vicina di casa di Victor (la lugubre Helsa Van Helsing, nomen omen, doppiata in originale da Winona Ryder). Citazioni e omaggi al vecchio cinema horror e fantasy si sprecano: il filmino girato da Victor è un chiaro rimando a Godzilla e King Kong, così come le immagini di Dracula che compaiono sul televisore del ragazzo. Ma anche l’acconciatura della barboncina di Elsa, di cui Sparky si innamora, è identica a quella di Elsa Lanchester ne La sposa di Frankenstein. La scelta del bianco e nero poi, in genere considerata la più azzeccata per raccontare il realismo sullo schermo, in Frankenweenie tende ad essere percepita come un’ulteriore componente fantastica proprio perché tanto distante e altra rispetto a ciò che osserviamo abitualmente.
Nell’inserire un altro tassello nella sua filmografia che rappresenta un vero e proprio mosaico della diversità, Burton firma così un’opera che, se fosse stata realizzata negli anni Novanta, sarebbe stata un capolavoro. Il fatto che Frankenweenie abbia visto la luce in questo preciso momento (dopo l’occasione mancata che è stato Dark Shadows, a sua volta giunto in un periodo di evidente stasi creativa per il regista), invece, lascia pensare che il regista si sia voluto giocare l’asso nella manica in mancanza di un progetto originale. Va bene il desiderio di realizzare un sogno che per uscire dal cassetto in cui era custodito aveva bisogno di essere finalizzato in totale libertà e scevro da ogni restrizione creativa, ma oltre all’impeccabile sapienza tecnica e alla tenera vicenda che ha nella semplicità il suo punto di forza, Frankenweenie rimane distante dai picchi più alti raggiunti da Burton con opere come Ed Wood Big Fish o La sposa cadavere.
Voto 7
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
La poetica del bizzarro di Burton si arricchisce di un nuovo tassello, che poi tanto nuovo non è.
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