Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
“Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io“. (Il Divo)
L’uomo del 2013 si riscatta dal ruolo di schiavo, se ne affranca senza mezze misure, ne ripudia le mortificazioni e si reinventa uomo libero nonostante un contesto storico-sociale faccia tutto il possibile per impedirlo.
Non si tratta, a differenza della scorsa stagione, di gioghi allegorici, individuali e arbitrari come l’ipersessualità di Shame, le norme socioreligiose di Una separazione o l’autorità paterna di The Tree of Life, ma di qualcosa di ben più preciso e inoppugnabile, di una schiavitù che si fa meno astratta e che diventa schiavismo: l’abbiamo trovato nelle ghignanti guasconate di Django Unchained o nelle note altisonanti e pompose del Jean Valjean de Les Misérables, presto ne avremo traccia nel tribalismo del canadese War Witch e, soprattutto, nel ritorno di Steve McQueen dietro la macchina da presa con l’ambiziosissimo Twelve Years a Slave.
A ergersi sui divertissements e sulle sovrastrutture finzionali ci ha pensato quest’anno la rigorosa, formale lezione di storia che Steven Spielberg ha deciso di incentrare sul più emblematico e irreprensibile Presidente degli Stati Uniti d’America e sulle battaglie fronteggiate dal Partito Repubblicano per porre fine dogmaticamente e una volta per tutte alla supremazia bianca tanto negli Stati dell’Unione quanto nei territori riconquistati dei ribelli confederati.
Lontano dal tradizionale cursus honorum di Abramo Lincoln o dall’aneddotica mitografica di Alba di gloria, l’approccio di Spielberg tralascia licenze drammatiche o speculazioni biografiche per concentrarsi su uno spassionato impianto saggistico dove la concessione al racconto è rara e giustapposta quasi a forza: dopo le mistificazioni romantiche e stucchevoli del malriuscito War Horse, la guerra si riaffaccia nel suo degradante, paritario, fangoso realismo, ma è solo questione di minuti perché il campo di battaglia si sposti dal fronte ai salotti, perché l’arma di riferimento non sia più il fucile ma la parola: dal momento che il Presidente entra in scena, di spalle, assiso su una panca come il suo equivalente marmoreo al Lincoln Memorial, prefigurazione iconica del monumento che sarà, la guerra rimarrà sullo sfondo, come un alibi, un’ombra, il male necessario, sofferto, opprimente per il conseguimento del giusto. E’ un discorso che sembra venire dritto dai sospetti più o meno leciti di guerrafondismo di Salvate il soldato Ryan, ma che si colora qui di sfumature meno approssimative e soprattutto di un’intensa, tormentosa ambiguità: il fine che giustifica i mezzi – tema presente anche nei contemporanei Zero Dark Thirty e, per certi versi, in Argo – non è più l’acrimoniosa, machista reazione di un’America post-9/11 (cfr. Black Hawk Down), ma una conclusione tanto dolorosa quanto inevitabile, in quanto foriera di questioni morali insolubili.
Il Lincoln di Spielberg – anzi, meglio, dello sceneggiatore ultra-liberal Tony Kushner – ancorché ben lungi dal raggiungere carature elisabettiane e dal trasformarsi in una figura nettamente controversa, è disposto a ricorrere alla compravendita, all’inganno, al machiavellismo, ma non con le finalità ad personam dei suoi equivalenti contemporanei, bensì per il raggiungimento di uno status quo superiore, e pare addirittura consapevole di una fine incombente, quasi martirizzante, trascinato nei suoi progetti dall’impellenza e dalla fretta di chi sa che gli è rimasto poco da vivere.
Risulta così fuori luogo interrogarsi dietrologicamente sulle reali intenzioni dello Zio Abe, sul peso effettivo del tredicesimo emendamento nella vita quotidiana di una popolazione a nettissima maggioranza bianca, quando la Guerra Civile Americana e i suoi protagonisti, nella loro caratterizzazione, finiscono per essere più archetipi che personaggi, incarnazioni tradizionali e convenzionali – come i soggetti biblici della pittura rinascimentale – di cui ci si serve per parlare dell’oggi, dell’impossibile esistenza di un bene assoluto, della necessità lancinante del compromesso, lo stesso a cui, esemplarmente, scende lo strenuo oppositore dello schiavismo Thaddeus Stevens (un ottimo Tommy Lee Jones), costretto a ridimensionare le proprie posizioni nella speranza che il provvedimento passi.
E’ anche vero che l’autore de Il colore viola, seppur narratore perfetto, a volte non sappia resistere alla sferzata retorica, come quando, invece di filmare l’esito della votazione restando sulla sintetica, eloquentissima, serena solitudine di Lincoln rintanato nel suo studio mentre fuori si scatena il giubilo, alla fine preferisce renderci inutilmente partecipi del trionfo, o come quando, subito dopo, con tanto di enfatico motivo di John Williams in sottofondo – fra le più scomode eredità dello Spielberg più tronfio – ci viene mostrata la piccola celebrazione privata di Stevens e della sua governante/compagna afroamericana Lydia Smith. Sono piccole sbavature, sia chiaro, ma che, insieme ad altre, contribuiscono a indebolire – non diversamente dal monologo finale di Liam Neeson in Schindler’s List – l’apparato sobrio e già notevolmente denso di Lincoln: è lo Spielberg più maturo, più sostanziale e meno faceto – quello di Munich, per intenderci -, e di conseguenza è anche lo Spielberg che rischia di più e che può suscitare i maggiori dissensi, ma che ha molto più senso del bambinone dell’ultimo Indiana Jones o di Tintin.
Se quindi possono apparire sfiancanti quasi centocinquanta minuti prettamente parlati, è proprio in questo linguaggio dell’intelligenza che si rivela la grandezza del film, cui il cineasta di Cincinnati infonde soprattutto il proprio mestiere più che la propria – a questo punto piuttosto discorde – poetica, e per certi versi è bene che sia così: è un cinema in via di estinzione, l’ultimo baluardo del classicismo dei Ford e dei Capra che, a costo di rivelarsi anacronistico (specie nella fotografia del solito Janusz Kaminski, tutta aure e chiaroscuro), conferma di avere molto più da dire dei post-moderni, sterili coevi massacri tarantiniani.
Trascinato dal superbo, ricchissimo script di Tony Kushner, che riduce considerevolmente le consuete tentazioni manichee del regista de Lo squalo ed offre ad ogni personaggio la sua porzione di luce ed ombra, il cast è sfruttato al meglio, a partire da un David Strathairn meticoloso e sussiegoso nei panni del Segretario di Stato William Seward, autentico grillo parlante del Presidente, passando per un vegeto e agguerrito Hal Holbrook, che fu Lincoln in una riduzione televisiva degli anni Settanta e che qui invece interpreta l’influente, paterno politico repubblicano Francis Preston Blair, senza dimenticare un inedito, grossolano James Spader, che ruba la scena nel ruolo spassosamente sopra le righe del lobbista William N. Bilbo. Venendo al contributo di Daniel Day-Lewis, su cui si sono spesi elogi ancor prima che le riprese partissero, ogni aggiunta appare superflua: mimetizzatosi maniacalmente e giunto a combaciare psicosomaticamente al profilo del presidente americano, il prossimo vincitore del Premio Oscar per la miglior interpretazione maschile non si abbandona a birignao e scene madri ma, sul livello della leggendaria interpretazione di Raymond Massey, conferisce al Presidente americano tutte le contraddizioni, i conflitti e gli affanni che fino ad oggi gli erano stati plenariamente negati, non, come sarebbe facile intuire, un protagonista assoluto, ma la prospettiva sfaccettata ai limiti del cubismo di un idolo fino ad oggi considerato intoccabile.
Lincoln, in definitiva, non è la celebrazione agiografica che era lecito aspettarsi, ma un pregevole, sagace esercizio di dialettica cinematografica dove il linguaggio della fiction e le fondamenta della non-fiction raggiungono un equilibrio sopraffino, forse il punto più alto e sorprendentemente audace toccato dall’arte di Spielberg negli ultimi quindici anni, di sicuro un esperimento tutt’altro che fallito che richiede impegno, dedizione e una naturale predisposizione a lasciarsi investire dalle parole.
Voto 8
Recensione a cura di Andrej Bosco
www.binarioloco.it
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