Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Ogni tanto torna di moda, il musical, genere affacciatosi sul panorama cinematografico subito dopo l’avvento del sonoro e che più degli altri incarna il sogno hollywoodiano. Nacque esattamente a Hollywood nel 1927 con Il cantante di jazz di Alan Crosland, primo film sonoro e cantato della storia del cinema. Figlio della grande depressione che colpì gli States di lì a poco, il musical rappresentava un vero e proprio antidoto alla tristezza e alla malinconia che regnavano in quegli anni, un’opportunità di evasione dal grigiore e dalla mancanza di prospettive che quel momento storico portava con sé. Con qualche cents i brutti pensieri sparivano, almeno per un po’, e ci si concentrava su un tip-tap o su una canzonetta orecchiabile dal testo leggero, sognando un futuro diverso.
Ed è quantomeno curioso che si torni a parlare di musical oggi, con la crisi economica che attanaglia mezzo mondo e gli incassi cinematografici che non possono che risentirne. Abbiamo storto il naso nel guardare Step Up 4 Revolution o Rock of Ages (!), solo per citare due pellicole recenti appartenenti a questo genere, ma adesso nelle sale arriva Les Misérables, ed è tutta un’altra storia. Per ventisette anni ininterrottamente in scena nei teatri del West End Londinese e sempre con il tutto esaurito. Il musical ispirato al celebre romanzo di Victor Hugo, adattato per il palcoscenico dal compositore Claude-Michel Schönberg e dal librettista Alain Boublil è stato esportato in più di quarantadue nazioni, tradotto in ventuno lingue e in grado di attirare sessanta milioni di spettatori.
Nel film diretto da Tom Hooper (Il discorso del Re), in corsa verso gli Oscar con otto nomination, non c’è più traccia della poetica di evasione di cui il musical si faceva fautore ai suoi albori: si punta sul melodramma, sulla storia di redenzione e di speranza, di sacrificio e riscatto ambientata nella Francia del XIX° Secolo. Hugh Jackman interpreta l’ex detenuto Jean Valjean, ricercato da decenni dallo spietato ispettore Javert (Russell Crowe) dopo aver violato la libertà condizionata. Quando Valjean decide di prendersi cura della giovane figlia dell’operaia Fantine (Anne Hathaway), Cosette (Amanda Seyfried), tra lui e la ragazza si instaurerà un rapporto solido e profondo, che terrà le loro vite legate per sempre a doppio filo.
Dopo ogni adattamento possibile (cinema, TV, fumetto), quello che colpisce della versione di Hooper de I Miserabili è la decisione piuttosto audace di far cantar dal vivo i protagonisti, e non di inserire in fase di post-produzione le loro performance, come di solito avviene. Un rischio che ha pagato, perché questa scelta contribuisce ad esaltare le esibizioni degli attori, privilegiando l’intensità espressiva all’accuratezza canora. Il cast regala interpretazioni vibranti: sono tutti bravissimi, ad eccezione di Russell Crowe (che guardacaso è anche il frontman del gruppo The Ordinary Fear of God). Il suo Javert non convince, complice un tono di voce monocorde che l’attore mantiene pressoché identico per tutta la durata del film. Buone le prove della Mamma Mia girl Amanda Seyfried, della giovane Samantha Barks nei panni di Eponine (probabilmente la più precisa nell’esecuzione, tanto che la sua On My Own sembra registrata in studio), di Eddie Redmayne nei panni di Marius e dei divertentissimi Thénardier Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen.
Tutt’altro discorso, invece, si meritano il sorprendente Hugh Jackman, che finalmente ha avuto modo di dimostrare di essere più bravo che affascinante e l’intensa Anne Hathaway, protagonista del momento più toccante e memorabile dell’opera quando si esibisce in I Dreamed a Dream. Un piano sequenza di quasi cinque minuti, stretto sul suo volto sciupato e derelitto, con la voce spezzata dal pianto: apnea assicurata anche per i non amanti del genere.
Certo la regia di Tom Hooper ha pochi slanci e sembra prediligere inquadrature e movimenti di macchina da serie televisiva di elevata fattura. Concentrandosi sui primi piani (a volte tanto stretti da mostrare le ugole degli attori), non riesce a mettere un po’ di dinamismo neanche nelle inquadrature che si aprono sulle suggestive vedute di una Parigi poco reale e molto teatrale, interamente ricostruita nei Pinewood Studios di Londra. Le scenografie sontuose e i costumi di Paco Delgado evidenziano la meticolosità con cui ogni singolo aspetto del film è stato curato. I dialoghi parlati si contano sulle dita di una mano, tutti cantano, per quasi tre ore. Ma una volta usciti dalla sala, le melodie verranno a casa con voi, insieme alla consapevolezza di aver assistito a uno spettacolo vibrante e coinvolgente come pochi.
Voto 8
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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