Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Ovvero come buttare dalla finestra cento milioni di dollari. A venticinque anni dal primo episodio della fortunata saga, l’inossidabile Bruce Willis torna a vestire i panni di John McClane, il poliziotto “che non fa prigionieri” e che questa volta avrà come compagno di (dis)avventure nientemeno che suo figlio Jack (quel Jai Courtney già visto accanto a Tom Cruise in Jack Reacher – La prova decisiva, e nella serie TV Spartacus). Dopo aver attraversato mezzo mondo per arrivare fino a Mosca per aiutare Jack, incarcerato dalle autorità locali con gravi accuse, John si ritroverà nel bel mezzo di un intrigo internazionale alle prese con criminali di prim’ordine. La cosa che dispiace di più, nel vedere Un buon giorno per morire, è che dell’elemento vincente del franchise, di quel mix perfetto di ironia e accattivante insolenza che lo aveva distinto dagli altri mille fioriti a Hollywood tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, non v’è traccia.
Diretto da John Moore (Max Payne), il quito Die Hard si riduce a una sequenza di scene d’azione, alcune anche spettacolari, ma è completamente privo di una trama e di qualunque coup de théâtre che non fosse più che intuibile già dai titoli di testa. Non si va oltre qualche scambio di battute a tema generazionale tra Jack, il nuovo che avanza e John, il vecchio che ritorna.
Tra inseguimenti incredibili (nel senso che si pongono ben al di là del verosimile), scene in cui i nostri eroi si trovano a dover combattere in maglietta all’interno di quel che resta di Chernobyl, mentre tutti gli altri indossano degli scafandri antiradiazioni, e la bella (e cattiva) di turno che pilota un elicottero militare in autoreggenti e tacco dodici, rimane ben poco da salvare. Forse giusto una manciata di espressioni di Sebastian Koch, attore tedesco tra i più prolifici, accanto a qualche consapevole smorfia del veterano Willis, certi che il suo faccione iconico meriti ben altri plot con cui potersi confrontare. Senza dubbio siamo davanti al Die Hard meno riuscito dei cinque, complice anche l’impietoso doppiaggio italiano che contribuisce a dare al film il colpo di grazia. A questo punto non rimane che sperare nel sesto, la cui realizzazione è stata confermata in questi giorni, mentre ci accingiamo ad uscire dalla sala ancora frastornati e con un fastidioso ronzio nelle orecchie.
Voto 4
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