Gangster Squad

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E’ il 1949, Los Angeles rappresenta la quintessenza del Sogno Americano e tutti cercano di conquistare un pezzetto di quel sogno.
Anche Mickey Cohen (Sean Penn) – gangster realmente esistito e vecchia conoscenza per chiunque abbia bazzicato un minimo James Ellroy – ha il suo sogno, quello di arrivare a gestire tutta la criminalità organizzata operante sulla West Coast.
Quindi scommesse, prostituzione e spaccio di eroina.
Spesso con la connivenza delle forze dell’ordine.
Il capo della polizia Bill Parker (Nick Nolte) non ci sta e istituisce una squadra di poliziotti incorruttibili, con il preciso scopo di sabotare le attività di Cohen.
Il tutto in maniera assolutamente non ufficiale.



Se leggendo queste righe a qualcuno fosse tornata in mente la trama de Gli intoccabili non ci sarebbe nulla di strano.
Sostituite Los Angeles con New York e Cohen con Al Capone e il gioco è fatto.
Le similitudini tra il film di Ruben Fleischer e il capolavoro di De Palma però finiscono qui.
Non che Gangster Squad sia un brutto film, per carità. Non lo è affatto.
E’ un noir piuttosto solido e rispettoso delle atmosfere del genere, che appassiona e, col suo corredo di locali fumosi, esecuzioni efferate e femme fatale, riesce a non annoiare mai.
Però, mentre scorrono i titoli di coda, rimane la sensazione che manchi qualcosa.
Innanzitutto manca uno stile; una direzione univoca che connoti il film e che lo porti ad essere altro che un omaggio, filologicamente anche corretto, al classico cinema di genere.
Ci sono sicuramente delle scene esteticamente valide – una su tutte la sparatoria finale nella hall di un albergo – ma nessuno nutriva dubbi sul fatto che Fleischer – già autore degli interessanti Benvenuti a Zombieland e 30 Minutes or Less – fosse assai bravo con la macchina da presa.
Poi ci sono i problemi di scrittura.
I membri della squadra anti-Cohen vengono descritti come dei cani sciolti, con dei seri problemi disciplinari e traumi post-bellici, peccato che in loro non ci sia ombra di dannazione né di redenzione. Nessuna traccia di quell’ambiguità morale che da sempre contraddistingue i personaggi della letteratura hard-boiled, compromessa in parte da una caratterizzazione troppo unidimensionale dei singoli characters (il donnaiolo, il padre di famiglia, il genio dell’elettronica).

Gangster Squad, insomma, rappresenta uno di quei casi in cui il valore dei singoli elementi in campo è superiore al risultato finale.
Perché il regista, oltre ad avere a disposizione del materiale narrativo di primissima scelta (i racconti pubblicati da Paul Lieberman sul L.A. Times con il titolo Tales from the Gangster Squad), si è ritrovato a dirigere, in un solo film, il gotha della recitazione a stelle e strisce contemporanea. Solo che Fleischer, proprio come un allenatore chiamato a preparare una squadra di soli fuoriclasse, sembra non riuscire a gestire al meglio tutto questo potenziale e il risultato è, per forza di cose, un pareggio.
A fare le spese di tutto ciò è soprattutto Sean Penn che, nella costruzione del suo Mickey Cohen, eccede in alcune coloriture, scadendo nel macchiettismo e, più che richiamare il succitato Capone di De Niro, finisce per ricordare Big Boy Caprice, il volutamente caricaturale gangster interpretato da Al Pacino nel Dick Tracy di Warren Beatty.
Resta un solo rimpianto. Il pensiero che Gangster Squad, in mano a un David Fincher (ma anche solo a Joe Carnahan), avrebbe potuto essere qualcosa di più.

Voto 5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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