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— 2 giugno 2019Torna l’appuntamento per i leader dell’industria audiovisiva.
La settimana che si è appena conclusa ha portato con sé una notizia davvero triste per tanti appassionati di cinema. Lo scorso 4 aprile si è infatti spento all’età di settant’anni un personaggio molto noto negli Stati Uniti, un po’ meno qui da noi, unanimamente riconosciuto come il critico cinematografico più celebre e influente di sempre, Mr. Roger Ebert. E’ strano mettersi a scrivere di lui ora che non c’è più, non che abbia mai avuto il piacere di conoscerlo, ma in un certo modo il signor Ebert è entrato a far parte della mia vita circa una decina di anni fa, un po’ per caso, quando ho iniziato a scrivere di cinema. Ero alle prese con una delle mie prime recensioni (l’ottimo Closer di Mike Nichols, pellicola con dei dialoghi sorprendenti che vi consiglio di recuperare se non l’avete vista) e, dopo aver messo il punto e consegnato il pezzo, ho iniziato a cercare sul web altri pareri di critici d’oltreoceano sul film. Così mi sono imbattuta nella recensione di Ebert, a cui il film era evidentemente piaciuto molto; ma più del suo giudizio globale sul Closer, ad avermi colpito era stata una frase in particolare in cui si evinceva che questo signore che scriveva sul Chicago Sun-Times ne aveva perfettamente colto il senso più profondo: « Ciò che rende unico Closer, l’elemento che lo fa sembrare onesto alla luce di questi tempi disonesti, è che i personaggi non si comprendono l’uno con l’altro, né tantomeno capiscono loro stessi ». Tutto il film in una frase. Ricordo di averlo odiato per un istante: perché quella frase non era venuta in mente a me? Da quel momento alla fine di ogni recensione che ho scritto, sono sempre andata a dare una sbirciatina sul suo blog per sapere se Roger fosse d’accordo con me, cosa che mi dava quel pizzico di sicurezza in più.
Nato nel 1942 a Urbana, fin dal liceo Ebert cominciò a scrivere articoli per riviste locali. Poi si iscrisse all’università dell’Illinois e collaborò con il giornale universitario: curioso come la sua prima recensione fu un film che definire complesso è poco: La dolce vita di Fellini. Dopo anni lo stesso critico ritrattò il suo primo giudizio sulla pellicola, non esattamente positivo, che aveva scritto quando era poco più che un ragazzino: «I film non cambiano, ma i loro spettatori sì. Quando ho visto La dolce vita nel 1960 ero un adolescente per il quale “la dolce vita” rappresentava tutto quello che avessi mai sognato: peccato, esotico glamour europeo, l’estenuante storia d’amore del cinico giornalista. Quando l’ho rivisto, nel 1970 circa, stavo vivendo una versione del mondo di Marcello; la North Avenue di Chicago non era Via Veneto, ma alle tre di mattina i suoi frequentatori erano ugualmente coloriti, e avevo più o meno l’età di Marcello. Quando ho visto il film all’incirca nel 1980, Marcello aveva la stessa età, ma io avevo dieci anni di più, avevo smesso di bere, e non lo vedevo come un modello ma come una vittima, condannato a un’infinita ricerca della felicità che non poteva trovare, non in quel modo. Nel 1991, quando ho analizzato il film inquadratura per inquadratura all’Università del Colorado, Marcello sembrava ancora più giovane, e se un tempo l’avevo ammirato e poi criticato, ora provavo pietà per lui e lo amavo. E quando ho visto il film subito dopo la morte di Mastroianni, ho pensato che Fellini e Marcello avessero preso un momento di scoperta e lo avessero reso immortale. Potrà non esserci una cosa come la dolce vita. Ma è necessario scoprirlo da soli ».
Assolutamente innovativo, poi, il metro di giudizio che Ebert aveva ideato per stroncare o elogiare i film, adottato ora dalla maggior parte delle riviste specializzate e dai siti web che si occupano di cinema: le stelline. Sicuramente lo avete ben presente: consiste nell’assegnare alla pellicola recensita un voto che va da un minimo di mezza stella a un massimo di quattro. Un sistema che il critico utilizzava alternandolo a un altro, anche questo di sua invenzione, meglio noto come thumbs up – thumbs down (pollici in su – pollici in giù). Da sempre autodefinitosi un relativista del cinema, Ebert sosteneva che i film non potevano essere valutati utilizzando uno stesso metro di giudizio e che un’opinione su una pellicola portava inevitabilmente a darne una valutazione relativa e non assoluta. Sembrerà un concetto superato, ma in realtà questa sua riflessione ha letteralmente stravolto la critica cinematografica degli ultimi anni. Ecco come lo ha spiegato lo stesso Ebert all’interno della recensione di Shaolin Soccer, film diretto nel 2001 da Stephen Chow: «Il sistema delle stellette è da considerarsi relativo, non assoluto. Quando chiedete ad un amico se Hellboy è un bel film, non gli chiedete se è un bel film rispetto a Mystic River, gli chiedete se è un bel film rispetto a The Punisher. E la mia risposta sarebbe che, se in una scala da 1 a 4 Superman è 4, allora Hellboy è 3 e The Punisher è 2. Allo stesso modo, se American Beauty è un film da 4 stelle, allora Il delitto Fitzgerald ne merita due ».
Stella sulla Walk of Fame e Premio Pulitzer a parte (è stato l’unico critico cinematografico ad averne vinto uno), quello per cui Roger Ebert sarà ricordato è anche l’elemento che lo ha nettamente distinto dai suoi colleghi: la capacità di essere riuscito a stabilire un vero e proprio rapporto con il suo pubblico, legame intensificatosi negli anni grazie al web e ai new media (Twitter in primis) di cui Ebert ha saputo servirsi come pochi altri della sua generazione. A lui va il merito di aver reso la critica cinematografica comprensibile ai più attraverso la propria onestà intellettuale, la propria ironia e soprattutto una schiettezza che a volte ha rasentato la brutalità (celebre la frase con cui Ebert concluse la recensione sull’effettivamente insalvabile Deuce Bigalow – Puttano in saldo diretto nel 2005 da Mike Bigelow e interpretato da Rob Schneider: « Parlando in qualità di vincitore di un premio Pulitzer, Mr. Schneider, posso dire che il suo film fa schifo»).
Il giorno prima della sua morte aveva annunciato di doversi ritirare per ragioni di salute. Il cancro alla tiroide che aveva già combattuto e vinto nel 2002, e che lo aveva lasciato senza mandibola e senza la possibilità di mangiare, bere e parlare, era infatti riemerso. «Devo andarci più cauto ora – aveva scritto sul Roger Ebert’s Journal. «E’ per questo che sto prendendo quello che mi piace definire come un “congedo”. Questo non vuol dre che me ne vado. Il mio intento è quello di continuare a scrivere recensioni selezionate, lasciando il resto a una squadra di autori di talento scelti con cura e molto ammirati dal sottoscritto. Finalmente adesso potrò fare quello che ho sempre sognato: recensire solo i film che ho voglia di recensire». Il suo ultimo pezzo, la recensione di The Host di Andrew Niccol, è datata 27 Marzo. Due stelle e mezzo. Poi Ebert se ne è andato davvero, proprio ora che Steve James e Steve Zaillian stavano ultimando un documentario su di lui, ispirato all’autobiografia scritta dallo stesso critico (Life itself) e prodotto dal suo grande amico Martin Scorsese. Il film uscirà nel 2014, ma non sapremo mai quante stelline gli avrebbe dato Roger Ebert.
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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