Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Emily Taylor (Rooney Mara) è una giovane donna affetta da una forte depressione in seguito all’arresto del marito Martin (Channing Tatum), broker colpevole di insider trading (pratica illecita che consiste nell’utilizzare informazioni riservate al fine di compiere operazioni speculative in borsa, traendone profitto illecitamente). Dopo il rilascio dell’uomo, le cose sembrano sistemarsi, ma inspiegabilmente Emily tenta il suicidio. Il dottor Banks (Jude Law), ambizioso psichiatra in carriera, prende a cuore il caso. Forse anche troppo.
Le cose precipiteranno quando Martin verrà trovato morto e tutti gli indizi indicheranno Emily come unica colpevole.
Steven Soderbergh prosegue con questo film la fase forse più prolifica della sua carriera, continuando a districarsi con agilità tra cinema di impronta mainstream (Contagion) e progetti più personali (The Girlfriend Experience) e, con la complicità del fido sodale Scott Z. Burns (già sceneggiatore di The Informant e Contagion), firma la sua personale denuncia contro l’abuso di psicofarmaci – problema piuttosto sentito negli Stati Uniti – abilmente camuffata da thriller psicologico.
Come già con il recente, succitato Contagion, anche in questo caso Soderbergh prende le mosse da un tipico incipit di genere – macchina da presa che inquadra un palazzo dall’esterno per poi avvicinarcisi sempre di più, fino ad entrare in un appartamento che si rivela essere la scena di un delitto – per poi affrancarsene con il progressivo fluire del racconto.
Risulta evidente sin dal principio infatti come l’interesse dell’autore sia porre l’accento sull’evoluzione dei personaggi all’interno delle strutture sociali in cui questi agiscono. Emily è una giovane cameriera affascinata dal potere, Martin è in ogni caso colpevole del reato per cui si trova in carcere e Banks – grazie all’interpretazione particolarmente insensa di Jude Law – è vittima della sua stessa ambizione. La prima mezzora, tutta giocata su due piani temporali che si rincorrono, è notevolissima e introduce e descrive i personaggi alla perfezione, nonostante dialoghi oculatamente scarni.
In questo assunto strutturale, come in quasi tutte le scelte estetiche operate da Soderbergh, Effetti collaterali rivela una forte matrice hitchcockiana e di cinema classico in generale.
L’incedere ipnotico, quasi narcolettico che, lungi dall’appesantire la fruizione del film, cerca di tradurre in immagini l’alterazione dei sensi di cui è vittima la protagonista femminile, rimanda piuttosto chiaramente alle atmosfere de La donna che visse due volte o a La signora di Shangai di Orson Welles.
Ma proprio questa raffinatezza formale rischia però di evidenziare l’unica pecca del film.
Nella parte centrale infatti la cornice sembra quasi soverchiare il quadro e la storia gira un po’ a vuoto.
Fortunatamente poi arriva il finale e, in un modo o nell’altro, Soderbergh riesce a mantenere ciò che ha promesso nella prima parte, chiudendo questo interessante esercizio di stile con una lezione di cinismo come non si vedeva dai tempi di Match Point.
Voto 7
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Steven Soderbergh torna alla critica sociale firmando questo thriller di stampo classico nostalgicamente sopraffino.
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