Il grande Gatsby

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Il grande Gatsby è un libro profondamente importante e complesso. E’ importante perché rappresenta forse uno dei modelli più alti di romanzo moderno americano. E complesso perché ciò che nel libro viene raccontato è paradossalmente meno importante, ai fini della fruizione dell’opera, del contesto storico – e soprattutto sociale – che viene così meticolosamente descritto da Francis Scott Fitzgerald.
Stiamo parlando ovviamente degli anni Venti in una New York in pieno boom economico, in cui è così facile perdersi, convinti che tutto possa accadere, e soprattutto il senso di cinismo e decadenza che spesso la percezione delle troppe possibilità porta con sé.
Chiaro quindi come le aspettative per questa nuova trasposizione cinematografica del capolavoro di Fitzgerald fossero altissime. E a ragione.
Trasferire questo mondo in immagini è infatti impresa nient’affatto facile, ma Baz Luhrmann – regista non nuovo a operazioni del genere (basti pensare alla sua ardita rilettura pop del Romeo e Giulietta di Shakespeare) – accetta la sfida portando in dote al progetto tutto la sua funambolica e ipertrofica idea di cinema, lavorando giusto un po’ di sottrazione su quel gusto per il kitsch che da sempre contraddistingue ogni sua opera.



Per l’occasione l’autore australiano ritrova anche l’attore che proprio con Romeo + Juliet aveva contribuito a lanciare; quel Leonardo DiCaprio – unica scelta possibile per interpretare Gatsby oggi – che riesce a rendere alla perfezione quel misto di inquietudine e ottimismo, di rabbia e incanto infantile che, nelle intenzioni di Fitzgerald, doveva rappresentare le luci e le ombre del sogno americano.
E’ proprio nell’incontro/scontro tra lo stile di Luhrmann – tutto carrelli velocissimi e panoramiche glamour – e la prestazione di un DiCaprio bravo in maniera quasi imbarazzante e capace di tramutare, nel giro di pochi istanti, il sorriso in rabbia senza mai lasciar percepire il passaggio espressivo, che si gioca l’equilibrio dell’intero film.
Se infatti la roboante giostra allestita dall’autore di Moulin Rouge appare quasi da subito una scelta non ideale per descrivere le tante ambiguità che costellano Gatsby, Di Caprio prende sulle spalle il personaggio e regala al pubblico l’interpretazione migliore della sua carriera. Persino un gradino sopra il J. Edgar di Eastwood.
Un po’ come in The Aviator di Scorsese, anche qui la stella polare sembra essere il Charles Foster Kane di Quarto potere, solo che laddove Orson Welles lavorava sugli estremi DiCaprio decide di utilizzare quasi esclusivamente i mezzi toni, andando così a contrapporsi in maniera decisa alla grandeur della messinscena luhrmanniana, fino quasi a diventare anch’egli regista del film, solo dall’interno.

E mentre Baz Luhrmann spinge l’acceleratore sul lato più ludico ed edonistico della magica età del jazz, con tutto il suo corollario di feste scatenate e corse in auto, DiCaprio gira il suo personalissimo capolavoro.
C’è una scena in particolare che sintetizza in maniera perfetta il livello raggiunto dall’attore.
E’ il primo incontro tra Gatsby e la sua amata Daisy (una convincente Carey Mulligan). I due si ritrovano insieme, dopo cinque anni, a casa di Nick (Tobey Maguire), cugino di lei e trait d’union della coppia. La gamma espressiva dell’attore in quella sola scena è impressionante. Nei suoi sguardi c’è tutto l’imbarazzo di chi sta per osare ma sa che molto probabilmente non merita ciò che è in gioco.
E’ una scena d’amore di grande intimità che quasi cozza col resto del film.
Ed è la scena che mi è rimasta maggiormente impressa di questo film importante e complesso più o meno come il libro da cui trae ispirazione.
Solo più imperfetto.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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