Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Da quando Christopher Nolan con la sua trilogia su Batman ha cambiato per sempre l’approccio ai film sui supereroi, dotando il suo uomo pipistrello di un fattore umano piuttosto ingombrante e facendolo diventare “grande”, allontanandolo definitivamente dalla bidimensionalità della carta stampata, le pellicole supereroistiche che sono state realizzate in seguito hanno dovuto tener conto, per forza di cose, di questa sorta di spartiacque che si è venuto a creare. Così, mentre alcuni registi hanno continuato a confezionare cinecomic dal preciso scopo di intrattenere il pubblico e di farlo divertire (i tre Iron Man, The Avengers…) altri, affascinati dalla chiave di lettura Nolaniana, hanno voluto seguire la strada tracciata dal regista britannico (il cui recente Man of Steel ha dimostrato come la svolta introspettiva però non sempre si addica indistintamente a chiunque indossi una tutina da supereroe), ma spesso con scarsi risultati. E’ questo il caso di Wolverine – L’immortale pellicola in cui, nonostante Hugh Jackman, i cento milioni di dollari di budget e le potenzialità di un personaggio nato già sulla carta malinconico e introverso, c’è ben poco da salvare.
Spin-off della saga degli X-Men e secondo capitolo interamente dedicato al mutante con lo scheletro di adamantio (dopo il precedente X-Men le origini: Wolverine del 2009), il film diretto da James Mangold trae ispirazione dal primo fumetto in cui Wolverine è protagonista assoluto. Siamo nel 1982 e Chris Claremont e Frank Miller decidono di spostare le avventure di Logan in Oriente; ma a parte l’ambientazione, rimane ben poco della storia originale, e questo non è affatto un bene. La trama non è altro se non un poco incisivo e assolutamente obliabile episodio della lunghissima vita di Wolverine, il mutante immortale. C’è una donna da salvare, più di un villain contro cui combattere e una location vagamente esotica. Fine. I risvolti sentimentali sono assolutamente prevedibili e poco coinvolgenti, nonostante Wolverine sia il più affascinante e tormentato tra gli X-Men, dotato di una levatura drammatica decisamente superiore rispetto ai suoi compagni. Eppure il film non funziona. Sin dalle prime scene si ha la netta sensazione che il regista voglia creare qualcosa di nuovo, in cui dolore, introspezione e riflessioni sull’immortalità del protagonista conferiscano spessore allo sviluppo narrativo della vicenda. Ma come dicevamo prima, la chiave di lettura nolaniana non si addice a tutti i super personaggi e quando si esce dalla sala, rimane solo unola sensazione di intorpidimento e di apatia, ed è un gran peccato.
Il fatto, poi, che Wolverine – L’immortale sia in 3d è una vera maledizione Siamo di fronte a una stereoscopia realizzata alla bene e meglio, una delle più irritanti di sempre che, subìta per oltre due ore, diventa qualcosa di insopportabile. I dialoghi imbarazzanti e il doppiaggio italiano danno il colpo di grazia a un film che gli amanti della miniserie a fumetti dell’82 non dovrebbero proprio andare a vedere se non vogliono rovinarsi la serata. E poi dopo aver apprezzato le potenzialità e la completezza di Hugh Jackman in Les Misérables, ritrovarselo in un progetto del genere, senza capo né coda, non fa che aumentare la delusione. E che dire di James Mangold? Abbiamo adorato le sue ragazze interrotte e applaudito il remake di Quel treno per Yuma. Ma in Wolverine – L’immortale la sua abilità registica sembra aver subito una brusca battuta di arresto. Ai fan degli X-Men a questo punto non rimane che sperare in X-Men: Days of Future Past, megaprogettone firmato da Bryan Singer che vedrà la luce a luglio 2014, a cui Mangold ha dedicato alla fine del film un promettente codino.
Voto: 4
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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