Dopo gli spazi siderali di Gravity, la rappresentanza statunitense alla 70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia atterra fra i tetri e inospitali scenari della provincia texana e la desolazione senza fine dei suoi incattiviti abitanti: Joe di David Gordon Green tenta di restituirci la forma più pura e meno ingabbiato dalle commissioni del talento rivelatosi con George Washington (vincitore del 18° Torino Film Festival), esploso con lo splendido Undertow e riciclatosi tristemente dal 2008 nel circolo di Judd Apatow con abomini demenziali su cui è meglio tacere.
Ringalluzzito dal Premio per la Migliore Regia all’ultimo Festival di Berlino assegnato al suo Prince Avalanche, il cineasta texano ritrova gli ambienti, i personaggi e le dinamiche della sua fase autoriale, riviste però con la sensibilità di un autore ormai affermato: escono ridimensionati soprattutto i debiti nei confronti della poetica del confessato nume tutelare Terrence Malick, suo concittadino e coproduttore di Undertow, ma il ritorno a casa di Green, seppur salvifico e depurante, non riporta precisamente alle vette dei suoi esordi.
Traendo spunto dall’omonimo romanzo di Larry Brown, si torna a parlare di figure paterne, di riscatti impossibili e di vicende di ordinaria sopraffazione, qui rappresentate dall’ex-detenuto Joe (Nicolas Cage), che diventa la figura di riferimento e il viatico verso la vita adulta del quindicenne Gary (Tye Sheridan, che interpretava, guarda caso, il fratello maggiore del protagonista di The Tree of Life), quotidianamente vessato dal padre alcolista ed ingabbiato da una vita la cui miglior prospettiva è raggranellare qualche dollaro “uccidendo” alberi nelle squallide boscaglie circostanti.
Il legame che si instaura fra il burbero protagonista e il ragazzo però non va oltre un’ordinaria e neanche tanto approfondita educazione alla vita, che in certi momenti ricorda – epilogo compreso – i precetti del vecchio Clint Eastwood – Kowalsky di Gran Torino. Il film è effettivamente slabbrato, privo di un autentico baricentro e per certi versi fin troppo semplicistico, vittima di cambi di registro un po’ troppo facili – la parentesi comica con la ricerca del cane scomparso -, ma riesce comunque a funzionare grazie all’ingrediente che sembrava pregiudicare per principio la riuscita della ricetta: Green sfrutta infatti con grande intelligenza e sensibilità un attore rimasto vittima della sua progressiva, irrefrenabile perdita di dignità come Cage, che dà vita ad un’interpretazione assolutamente memorabile di volta in volta capace di imprevedibile sobrietà e di notevole autoironia, giocando sugli stereotipi e suoi tic che ne hanno negli anni inficiato la carriera.
Joe è pertanto forse un’opera più di transizione di quanto non si credesse, ma che forse sarà terapeutica per lo schizofrenico regista di Austin per il suo futuro professionale.
Ci si sposta invece sulla West Coast per accogliere il successivo ospite statunitense, il dramma erotico The Canyons che il veterano Paul Schrader ha presentato fuori concorso al Festival nonostante non si trattasse di una pellicola inedita e che fa il paio con la sua partecipazione al Festival in veste di Presidente di Giuria di Orizzonti. Probabilmente sarebbe stato meglio per lo storico sceneggiatore di Martin Scorsese fare dono esclusivamente della sua presenza, visto che il film è un indifendibile pastrocchio pensato per essere un cult a tavolino e messo in scena come una piatta soap opera vagamente porcellona – ma ben lontana dall’essere spinta – con personaggi assolutamente monocordi e privi di personalità, dinamiche di sceneggiatura insondabili ed attori lasciati, disgraziatamente, a se stessi: passi anche lo statuario ed inespressivo James Deen, che difficilmente saprà andare oltre la propria reputazione di “Ryan Gosling del porno”, ma ostinarsi a tentare di rilanciare una sfattissima, devastata Lindsay Lohan come una sorta di talentuoso ibrido fra la fragilità di Marilyn Monroe e l’eleganza di Elizabeth Taylor è un’idea che continua a rivelarsi fallimentare.
Bret Easton Ellis tenta di conferire al suo primo script concepito appositamente per lo schermo la stessa atmosfera malsana e morbosa dei suoi più riusciti adattamenti per il cinema, specie di Le regole dell’attrazione e di The Informers), ma il suo contributo è assolutamente irriconoscibile. Non è un problema dovuto al budget irrisorio o alla sostanziale natura autarchica del progetto ma alla pressoché totale mancanza di idee e di esigenze di raccontare qualcosa.
L’asso della giornata viene calato a sorpresa dalla Settimana Internazionale della Critica, che prende il via ufficialmente oggi dopo la proiezione non competitiva del nostrano L’arte della felicità: lo sloveno Razredni Sovraznik (Nemico di classe) è infatti un’originale e appassionante variazione sullo stilema, ormai fossilizzato, del cinema scolastico che fa piazza pulita di decenni di emuli stantii del Professor Keating de L’attimo fuggente. L’inflessibile Robert Zupan (un meraviglioso Igor Samobor, distinto e flemmatico come Dirk Bogarde), viene chiamato a sostituire come insegnante di tedesco la remissiva collega Nusha, amatissima dai suoi allievi ed instaura nella sua nuova classe un clima di austerità e rigore che, nelle intenzioni, dovrebbe incoraggiare i ragazzi indisciplinati a dare il meglio di sé e ad evolvere come individui ma che li porterà, a seconda dei casi più o meno traumaticamente, a scontrarsi con le proprie paure e i propri fallimenti finché un giorno la più fragile del gruppo, la pianista Sabine, si suiciderà e pioverà sul capo di Zupan l’accusa di aver incoraggiato il gesto.
Il film sconta inevitabilmente certe piccole sbavature, come una durata appena appena eccessiva ed alcune caratterizzazioni un po’ troppo stereotipate e tipiche della tradizione studentesca (dallo sfaticato buontempone all’odioso primo della classe, dalla professoressa di ginnastica bionda e svampita alla nazistella con il caschetto), ma per il resto si vola davvero alto: merito soprattutto di una sceneggiatura impeccabile che imbastisce un tesissimo gioco al massacro fra le forze della Logica (Zupan) e quelle dei Sentimenti (gli studenti), di una regia asciutta e matura che proietta il ventottenne Rok Bicek nel firmamento degli esordienti di ferro e della scelta tanto rischiosa quanto appagante di non privilegiare mai le soluzioni più facili (le due fazioni arriveranno forse a capirsi, ma non ad amarsi, e Zupan lascerà la scuola nel silenzio generale), lasciando perdere qualsiasi discorso sul superamento del lutto e sull’accettazione della realtà (basti pensare come vengono trattati i ridicoli, spassosi siparietti dell’assistente sociale) come invece accadeva di recente, per esempio, nel più conciliante Monsieur Lazhar ma affrontando il tema ben più struggente ed adulto della responsabilità e del senso di colpa e portando lo spettatore a identificarsi e a simpatizzare non con la vociante, qualunquista e ricattatoria fazione dei ragazzi, ma – inaudito! – con l’intelligenza, il raziocinio e la pacatezza del docente.
Resta solo da sperare che gli esercenti europei non si lascino scappare l’occasione e si prendano a cuore il destino critico e commerciale di un debutto davvero notevole.
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