Mette finalmente d’accordo tutti, nel male e – soprattutto – nel bene il film d’apertura della quarta giornata di programmazione della 70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ossia il britannico Philomena diretto da Stephen Frears: la cosa più sorprendente è che a ottenere un effetto di distensione e a fungere da balsamo per lo spirito è un tradizionale melodramma che si aggira fra istituti religiosi lager, traffici di bambini e lutti familiari.
Merito indubbio di tale paradossale effetto è il brillante script del comico inglese Steve Coogan, il leggendario Alan Partridge radiotelevisivo rivelatosi cinematograficamente con uno spassoso duetto firmato Winterbottom-Boyce e composto dai mai troppo celebrati cult d’oltremanica 24 Hour Party People e A Cock and Bull Story (da noi solo in Home Video): Coogan infatti non si limita a stemperare la materia con la solita alternanza di lacrime e sorrisi, ma mantiene dall’inizio alla fine un approccio soavemente umoristico – puntellato da gustose invettive anticlericali e antirepubblicane – che mantiene il film in un costante stato di grazia.
Protagonisti della vicenda sono infatti l’ottantenne infermiera in pensione che dà il titolo al film (una impagabile, perfetta Judi Dench) e lo spin doctor decaduto Martin Sixsmith (lo stesso Coogan): quest’ultimo, retrocesso alle retroguardie del bieco giornalismo sensazionalistico, si troverà casualmente a fare luce sulla “storia di vita vissuta” della donna, mai rassegnatasi all’idea di essersi fatta portar via il figlio Martin, concepito nel “peccato” e venduto ad una ricca famiglia cattolica d’oltreoceano.
Il registro patetico e tragico dell’interpretazione della prima combinato a quello comico del secondo sortisce un effetto davvero irresistibile, dove il fuoco di fila delle battute è sempre bilanciato dalla sostanza basilarmente drammatica degli sviluppi narrativi, mentre Frears ritrova il suo classico stile medio, discreto e moderatamente invisibile che in molti casi ha fatto la sua fortuna. Certo, Philomena non ci suggerisce niente sulla direzione in cui sta attualmente andando il cinema e fondamentalmente rimane soltanto un bell’esempio di calligrafismo fine a se stesso, però a volte è anche di piccoli, graziosi film come questi che inconfessabilmente sentiamo il bisogno e che possono risollevare, come fu sette anni fa, rimanendo su Frears, The Queen, dare una salutare spinta in avanti ad una rassegna internazionale.
Ci si avventura in contesti diametralmente opposti con l’adattamento di Child of God diretto da James Franco, che è ad oggi una delle sorprese più insperate della competizione: l’attore californiano ormai trentacinquenne, dopo una carriera nel mainstream fra vette (più che altro ottime interpretazioni in opere discutibili come Milk, 127 ore o Spring Breakers) e abissi (le sue sortite filo-apatowiane, il suo ruolo monocorde nella trilogia di Spiderman e nientemeno che una conduzione della Notte degli Oscar che regala ancora incubi ai seguaci della manifestazione), trova finalmente il giusto senso nel suo incerto e prolifico percorso da regista finora suddiviso fra modesti progetti low budget (gli insignificanti The Ape e Good Time Max), tributi piuttosto malriusciti ai suoi numi tutelari (allo sfortunato Mineo in Sal, ad Hart Crane in The Broken Tower e a Faulkner in As I Lay Dying) e provocazioni belle e buone (specie Interior. Leather Bar., in cui si limita a rigirare le sequenze erotiche censurate di Cruising).
A venirgli in soccorso e a illuminargli la via è nientemeno che la prosa di Cormac McCarthy, forse il più grande e riconoscibile romanziere americano vivente, di cui viene messo in scena quel Figlio di Dio che, terzo romanzo di una carriera pregnissima, servì ad imporre definitivamente uno stile di scrittura simile a nient’altro, fra punteggiatura assente e un linguaggio “verista” che ricalcava la parlata del Profondo Sud, e intriso di una weltanschauung cinica, selvatica e nichilista che sarebbe esplosa nei romanzi della maturità (Meridiano di Sangue in primis): Franco sceglie di trasporre in immagini la sua opera forse più infilmabile, l’escalation di violenza e la discesa nel baratro di Lester Ballard, un sociopatico semiritardato all’ultimo stadio che, alienatesi totalmente le simpatie della comunità e attirate su di sé le attenzioni dello sceriffo, si ritira nei boschi in solitudine e si dedica ad una vita ai confini dell’animalesco, che dapprima sfocia in lunghe peregrinazioni rabbiose e in sessioni di necrofilia, e si risolve poi nell’omicidio seriale e nella definitiva pazzia.
Forse ancor più del capolavoro coeniano Non è un paese per vecchi, questo Child of God ci restituisce il mondo e soprattutto lo stile mccarthyiano come finora non ci saremmo neanche sognati, con intelligenti scelte di regia che fungono da traduzione per determinate scelte letterarie (la dizione semi-incomprensibile che ricalca lo stile volutamente sgrammaticato dei personaggi e che ha reso necessario addirittura i sottotitoli pure per la lingua inglese, gli estemporanei stacchi a nero che restituiscono la brevità e la concisione dei paragrafi) e con una rischiosa, a tratti insistita ma in fin dei conti coerentissima esasperazione dei paralleli cristologici che già il romanzo accennava: Ballard si ritira nel bosco/deserto, è vittima di tentazioni, subisce le accuse della città, viene tradito dai suoi (anche se qui si tratta solo di innocui peluches), si scontra con un latifondista locale che assomiglia alla raffigurazione tradizionale di Dio Padre, viene arrestato e condannato sommariamente a morte, per poi scappare al linciaggio, rifugiarsi in una caverna/sepolcro ed uscirne dopo un paio di giorni, “rinato”.
Franco, che oggi per certi versi ricalca la strada da aspirante maudit che fino a dieci anni fa fu di Vincent Gallo, rischia moltissimo e si mantiene sempre a due passi dallo shock e dal compiacimento, ma il valore fortemente allegorico e morale della vicenda stempera il tutto e conferisce alla storia una naturale grandezza, cui giova anche la performance sensazionale e disumana – è il caso di dirlo – dell’emergente Scott Haze, un mostro capace delle peggiori efferatezze e con cui, ciò nonostante, proprio non riusciamo per non simpatizzare. Da segnalare anche l’appropriatissima colonna sonora bluegrass di Aaron Embry, che ci immette nell’atmosfera della provincia violenta del Tennessee con notevolissimi risultati.
Come al solito indispensabili le musiche di Joe Hisaishi, dolci e dolenti come non mai e che forse calano il sipario per sempre – sarebbe difficile aspettarsi il contrario – sul percorso artistico di Hayao Miyazaki, giunto quest’anno, nonostante la concorrenza delle sue opere precedenti, al suo più grande capolavoro.
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