Venezia 70: Day 9

Di Andrea Bosco
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Si è voluto forse suscitare un moto di curiosità all’interno della 70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia presentando il programma come il primo ad accogliere in Concorso due opere documentaristiche: se il ragionamento non fa una grinza considerando la pellicola di Errol Morris, ascrivibile senza problemi nel novero del cinema di inchiesta visto il suo intento divulgativo e la sua confezione che rispetta pienamente le convenzioni del genere, non altrettanto si può dire del film d’apertura di oggi, che chiude in bellezza il contributo italiano alla sezione principale del Festival.
Sacro GRA del nostro Gianfranco Rosi infatti sfugge alla netta demarcazione fra fiction e non fiction che tanto assilla tanta stampa nostrana, e rimane sempre in bilico fra l’una e l’altra caratterizzandosi più che altro come un’opera di impianto non narrativo che non informa, né documenta, ma rielabora e mostra.
Detto questo, il risultato di tre lunghi anni di peregrinazioni da parte del regista e della sua piccola troupe nel microcosmo che anima e popola il Grande Raccordo Anulare è un’opera palpitante di grande cinema a metà fra la cronaca e la poesia, fra lo studio grottesco e l’affresco cosmico, fra i personaggi di Ciprì & Maresco e il linguaggio di Franco Piavoli.
Quasi il lato oscuro, umanissimo ed extraurbano (e inconsapevole, vista la lunga gestazione) della montagna di fuffa della Grande Bellezza sorrentiniana, Sacro GRA è uno studio antropologico della realtà che circonda Roma e, più in generale, il mondo, uno sguardo che a volte sconfina nell’entomologia – emblematico il personaggio del botanico, figura divina che prepara l’olocausto delle larve che infestano le palme che circondano il raccordo – e nel grande ritratto cosmico di un’umanità isolata per sempre nelle loro piccole vite: ci sono il tycoon di periferia che si aggira per la villa dell’illustre antenato nobile in accappatoio bianco e sigaro in bocca, gli abitanti delle palazzine – impagabile il padre che associa la muffa di una melanzana all’aroma di uno Chateau d’Yquem – che ammirano dall’alto il cupolone all’orizzonte e le case principesche disabitate, l’anguillaro saggio che naviga il Tevere e sogna il Mar dei Sargassi, l’attore ormai in là con l’età che si dedica ai fotoromanzi, cubiste che si esibiscono sullo strettissimo bancone di un baraccio di infimo ordine, mignotte, travestiti, paramedici e varia umanità tutti confinati nel paesaggio surreale di cui l’Urbe pare essersi dimenticata.
Estendendo il discorso avviato con l’eccellente esordio di Below Sea Level (premio OrizzontiDoc a Venezia65), che invece si muoveva nelle zone depresse del deserto californiano, Rosi perviene ad una maturità autoriale spaventosa che gli permette, in appena novanta minuti, di partire dal particolare per approdare all’universale, ad una capacità di conferire al(l’iper)reale il carattere di un mondo alla deriva che pare quasi un’altra dimensione – quasi sulla scia del modello Herzog – e che invece è appena a due passi da noi. Senza nascondere le sfumature vagamente finzionali del progetto, (l’idea originale è di Nicolò Bassetti), e anzi, servendosi di esse per stendere più facilmente il racconto, Rosi firma una delle opere più indimenticabili e necessarie del Concorso tutto, quel discorso di rottura che le nuove leve davvero avanguardiste del nostro cinema (Delbono, Marcello, Gianikian & Ricci Lucchi…) stanno portando avanti nelle sezioni collaterali e che solo ora approdano alla sezione principale. Onore al merito e al coraggio di Alberto Barbera e dei suoi selezionatori per aver creduto fino in fondo e con tutte le ragioni ad una folle idea che, nella migliore delle ipotesi, riuscirà a smuovere davvero le acque dell’identità cinematografica nazionale.



Torna stoicamente dalla Francia, coraggiosamente noncurante dei fischi riservatigli puntualmente ad ogni partecipazione, il grande Philippe Garrel, che con il piccolo La jalousie sembra risolvere quell’impasse creativa che, dopo il magnum opus Les amants reguliers (Leone d’Argento a Venezia62), sembrava destinata a durare nel tempo: Garrel parte ancora una volta da un protagonista sintomatico, l’attore Louis (il figlio Louis Garrel), sorta di eterno Peter Pan in versione radical chic, che lascia moglie e figlia per una più matura collega (Anna Mouglalis) capace di garantirgli – più “spiritualmente” che economicamente – la precarietà della vita sul palcoscenico e l’entusiasmo di una vita che adulta proprio non vuole diventare.

Fotografato dal solito, personalissimo e romantico bianco e nero del fedele Willy Kurant, La jalousie si aggira per un universo ormai familiare per gli spettatori di Garrel, dove l’unica moneta corrente è l’amore – la cui crisi porta inevitabilmente al cupio dissolvi – e nel quale il migliore dei mondi possibili è quello in cui si può vivere mantenendosi con i propri sogni (il teatro, in questo caso), ma il discorso più si colora di una certa dose di pessimismo e di autoparodia, dove un suicidio in stile Majakovskij si conclude in realtà con il più patetico dei risultati e dove anche i bambini hanno perso la loro innocenza e il loro candore dandosi al calcolo: anche le sequenze che sembrano rifarsi al dramma sentimentale hollywoodiano (gli appuntamenti fra Louis, sua figlia e la nuova compagna) in realtà esprimono tutta la inutile ricerca di una felicità borghese destinata ad arenarsi, mentre i protagonisti della storia si spostano come vampiri alla ricerca di un po’ di speranza da succhiare.

Si passa all’ultima pellicola-monstre presentata fuori Concorso – la più lunga e complessa (244′) – per salutare ancora una volta il genio etologico del sommo Frederick Wiseman, forse l’inventore del documentario moderno, che in quest’occasione si aggira per la più celebre università pubblica statunitense studiandone, con il suo solito occhio maniacalmente obiettivo, asettico e scientifico, i comportamenti, le evoluzioni e gli sviluppi fra manifestazioni, lezioni, riunioni ed esibizioni: dal magniloquente, onnicomprensivo affresco di At Berkeley, ideale prosecuzione della bilogia di High School, viene fuori l’immagine di un autentico tempio del sapere destinato a rimanere nei millenni a venire e di un paradiso della conoscenza senza pari nel mondo, nel quale però prendono vita ancora oggi, discendenti degli eventi che diedero vita al Free Speech Movement e, più in generale, alla controcultura hippie, scontri generazionali, con i ragazzi di allora ad aver raggiunto oggi i ruoli dirigenziali, tensioni sindacali (una buona parte del film è dedicata agli incontri di natura retributiva e gestionale fra le varie categorie lavorative del campus) e minoranze in fermento, come la sparuta componente afroamericana che lamenta, con le dovute differenze, le medesime difficoltà di adattamento del passato o la rappresentanza studentesca repubblicana, quasi a disagio nella realtà storicamente progressista e ultra-liberal dello stato della California.
I momenti memorabili sono davvero tanti, dalle performance goliardiche che culminano in un recital su Facebook alla lezione di letteratura inglese su To His Mistres Going to Bed di John Donne, dalla tesa, lunga riunione volta a definire i parametri delle misure di repressione per contrastare le future contestazioni alla grande occupazione del 7 ottobre, quando gli studenti si riversarono fuori dalle aule ed occuparono pacificamente la biblioteca, episodio dal quale – caso raro nella oggettivissima prospettiva di Wiseman – traspare la distanza insanabile fra le sincere ma a tratti farneticanti recriminazioni odierne e le basilari conquiste sociali degli anni ’60, quasi a dire, citando quel Bob Dylan che ideologicamente passò di lì, che the times, indubbiamente, they are a-changing.
In sostanza, questo magnifico At Berkeley, presentato quasi nel silenzio generale negli spazi ristretti della Sala Perla e della Sala Casinò, è l’ulteriore tessera del mosaico di sensazionali opere documentaristiche presentate quest’anno al Lido che arrivano per certi versi ad oscurare i loro assai più numerosi e agguerriti equivalenti finzionali.


Conclude la giornata sull’onda del divertissement il giapponese Yurusarezaru Mono, rifacimento fedelissimo in chiave chanbara de Gli spietati di Clint Eastwood: il più recente capolavoro del genere western acquista ancora più forza e imprescindibilità archetipica ed offre l’occasione al regista Sang-il Lee per effettuare variazioni davvero minime, come un sottinteso elogio dell’uso “puro” dell’arma bianca di fronte alla contaminazione occidentale delle armi da fuoco e, soprattutto, un finale magniloquente che rovina ed esaspera il tono dolente, rassegnato e asciutto che caratterizzava lo scioglimento originale (Munny, finito il lavoro, torna a casa e si capisce che passerà il resto dei suoi giorni in pace insieme ai suoi figli) e che qui assume connotati melodrammatici davvero fuori posto, con un passaggio di consegne fra il vecchio assassino in cerca di espiazione (un ottimo Ken Watanabe perfettamente aderente al profilo eastwoodiano) e il giovane aiutante – qui trasformato in una sorta di indomito Kikuchiyo – , che invece di fare ritorno al proprio villaggio con la coda fra le gambe si ritira in pace nella fattoria del vecchio insieme alla prostituta sfregiata da cui hanno preso avvio le vicende.

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