Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Era il 1968 quando, con 2001 Odissea nello spazio, Stanley Kubrick invitò cinema e pubblico a voltare pagina. Lo fece con un’opera tanto ambiziosa da rasentare la follia, impossibile da racchiudere all’interno di una catalogazione di generi e portatrice di un messaggio di una potenza mai neanche immaginata, puntando su una messa in scena che, dopo oltre quarant’anni, continua ad essere riconosciuta come una delle più complete e complesse mai tentate sullo schermo. Lungi dall’essere una pellicola di fantascienza, in 2001 quest’ultima rappresenta solo l’involucro che racchiude una vicenda che si fa messaggio per poi diventare, subito dopo, simbolo. La science-fiction, dunque, come pretesto per raccontare qualcosa di molto più esteso e che si avvicina inevitabilmente al concetto di arte in ogni sua declinazione.
Dal 2006, anno in cui uscì I figli degli uomini, Alfonso Cuarón è sparito dalla circolazione. Dopo sette anni, eccolo tornare prepotentemente sulla scena con quello che è senza dubbio il suo lavoro più intimo e riuscito, già applaudito a Venezia 70 e pronto a fare il suo ingresso nelle sale, Gravity. Tutto questo tempo per ultimare un film con due soli attori e la cui trama si può riassumere in due righe: il dramma di due membri dello Shuttle in missione nello spazio che, in seguito alla distruzione della loro navicella, faranno di tutto per restare vivi a migliaia di chilometri dalla Terra. Eppure ne è valsa la pena. Operando scelte opposte rispetto a tanti suoi colleghi più fracassoni (Michael Bay su tutti) che sembrano voler puntare sul montaggio frammentario e sulla confusione sia visiva che sonora, Cuarón apre la sua pellicola con un piano sequenza di diciassette minuti. E solo quello vale prezzo del biglietto. Un po’ come fece Hitchcock in Nodo alla gola, che in altri tempi e con altri mezzi era riuscito a confezionare un film del tutto privo di montaggio, ora tocca a Cuarón sfidare i princìpi del cinema classico e fuggire dai dogmi limitanti della tradizione hollywoodiana per sperimentare un’idea di cinema incontaminato, splendido e assoluto in cui allo spettatore, così come alla macchina da presa, non è concesso staccarsi dall’azione.
Il regista messicano ha una tecnica sorprendente (ma questo lo sapevamo già: ricordate la scena dell’auto ne I figli degli uomini? ), a cui si è aggiunta una padronanza della stereoscopia che toglie il fiato e, allo stesso tempo, la capacità di raccontare una storia di speranza, sconfitta e redenzione attraverso la potenza delle immagini. Alla fine l’aspetto meno riuscito di Gravity risultano essere i dialoghi, anzi quei due o tre monologhi che in un paio di momenti ci fanno ricordare di essere al cinema e non nello spazio. Cuarón poi, possiede la rara dote di riuscire a muoversi con coerenza in uno spazio filmico che è potenzialmente infinito, rendendo plausibile tutto quello che sceglie di mostrare. Ma c’è un’altra cosa che rende Gravity davvero unico, ed è la forza con cui il film riesce ad infondere nello spettatore una profonda inquietudine attraverso il racconto di eventi che alla maggior parte di noi non capiteranno mai: tipo essere iviati in missione nello spazio! Eppure per quanto sia una possibilità remota, il solo pensiero di rimanere lassù, da soli, nel silenzio assordante del vuoto, ci paralizza anche se siamo in poltrona e non ci molla.
Gravity è un blockbuster autoriale diretto da un regista perfettamente consapevole del mezzo espressivo che ha tra le mani e che utilizza per sperimentare ed emozionare. Insomma, preparatevi a voltare pagina ancora una volta.
Voto 8,5
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
L’odissea nello spazio di Alfonso Cuarón, blockbuster autoriale che lascia letteralmente senza fiato.
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