La vita di Adèle

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QUI trovate la nostra intervista a Abdel Kechiche e Adèle Exarchopoulos



Adèle (Adèle Exarchopoulos) ha quindici anni e parla poco.
Per la maggior parte del tempo si guarda intorno e studia. Sia libri che persone.
Ha fame, di cibo e di vita, e coltiva il sogno molto poco glamour di diventare educatrice.
Dopo un abbozzo di storia poco convinta con un compagno di scuola, la vita di Adèle viene stravolta dall’incontro casuale con Emma (Léa Seydoux), studentessa di Belle Arti, che la inizia alla vera passione e le mostra la natura ambivalente dell’amore, fatta allo stesso tempo di gioia e sofferenze.
Questa, in breve, la sinossi dell’ultimo, bellissimo film di Abdel Kechiche (Cous Cous, Venere Nera), anche se tutto ciò potrebbe essere ulteriormente sintetizzato nella frase “Adèle vive”.
Perché è più o meno questo a cui assistiamo per tre ore: a un pezzo di vita di Adèle.
Un pezzo molto importante in realtà perché copre l’età delle scoperte e della formazione, soprattutto sentimentale.

Kechiche, per raccontare questo delicato rito di passaggio, decide di limitare al minimo qualsiasi intervento stilistico forte e di avvicinarsi ad Adèle, come se volesse semplicemente vedere cosa stia facendo.  Sulle prime l’autore sembra quasi spiarla con la macchina da presa, pedinarla. Poi, una volta presa confidenza, le si para davanti, la inquadra da vicino e non la lascia più, fino a dare l’impressione che tutto il film sia composto in realtà da un unico, lunghissimo primo piano.
C’è una scena, all’inizio del film, che spiega bene questa scelta.
Adèle è in classe, durante una lezione di letteratura in cui il professore osserva i suoi alunni leggere alcuni estratti de “la vita di Marianna” (l’omaggio al libro è chiaro già nel titolo stesso del film) di Marivaux. Ogni tanto la lettura viene interrotta e il professore lascia che sia lo studente successivo a continuare.
Ecco, l’impressione è che Kechiche adotti lo stesso identico approccio rispetto ai suoi protagonisti e che sostanzialmente stia lì a vederli vivere, mangiare, innamorarsi. E soprattutto sbagliare.
Questa ipotesi è supportata anche dai tempi lunghi che l’autore tunisino si concede per mostrare quadretti di vita quotidiana che in altri film verrebbero considerati poco più che scene di raccordo. E’ il caso ad esempio di alcune sequenze a tavola: gli attori mangiano, parlano del più e del meno mentre le inquadrature si focalizzano sui dettagli delle bocche e delle mani, quasi a voler riportare il livello della dissertazione sui temi amorosi da una spiritualità spesso abusata su un piano più carnale.

Buona parte della grazia del risultato finale è garantito della straordinaria protagonista, la giovane Adèle Exarchopoulos, che si offre all’occhio del regista con una generosità rara, non limitandosi a vestire il suo personaggio, ma abitandolo in una maniera talmente spontanea da sembrare la protagonista di un documentario.
Ci sono momenti del film in cui questa percezione è talmente forte che d’istinto verrebbe quasi da abbassare lo sguardo di fronte alla pudica sincerità che c’è negli occhi dell’attrice.
Non si pensi però, soprattutto in virtù delle molte scene di sesso che punteggiano la narrazione, che si tratti di un film in qualche modo morboso nei confronti del tema trattato.
Ci troviamo in territori distanti anni luce rispetto ai Kids di Larry Clark e alle Spring Breakers di Korine.
Al contrario, l’aggettivo che viene più spesso alla mente durante la visione è “delicato”.
Perché La vita di Adèle, giustamente premiato all’ultimo Festival di Cannes con la Palma d’oro per il Miglior Film, alla fine è questo. Un capolavoro di delicatezza.
Oltre che un omaggio alla vita, all’amore e allo struggimento che da questo molto spesso consegue.

Voto 8

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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