MIA Market 2019: la quinta edizione sarà dal 16 al 20 ottobre
— 2 giugno 2019Torna l’appuntamento per i leader dell’industria audiovisiva.
Ieri abbiamo dedicato a Hunger Games – La ragazza di fuoco il nostro daily, interrompendo il racconto di quella che è stata di gran lunga la giornata più emozionante di questa edizione del Festival pochi minuti prima del red carpet. Red carpet che oggi vi raccontiamo attraverso le immagini scattate ieri sera ai tre protagonisti del film. Jennifer Lawrence, la vera regina della serata, e i suoi compagni di set Liam Hemsworth e Josh Hutcherson.
Jen per l’occasione indossava un abito Dior Haute Couture in raso color vaniglia e un paio di sandali dorati, nonostante il clima non proprio caraibico.
Spentisi i riflettori sul red carpet più atteso dell’ottavo Festival del Film di Roma, stamattina siamo andati a vedere l’ultima pellicola In Concorso, Another me della regista e sceneggiatrice spagnola Isabel Coixet.
L’attesa c’era per questa autrice nota a livello internazionale per film quali La mia vita senza me (In Concorso Berlino), La vita segreta delle parole, presentato a Venezia (e vincitore di 4 Goya, fra cui Miglior Film e Miglior Regista), e Lezioni d’amore, In Concorso al Festival di Cannes. Ma diciamo che non è stato il modo migliore per chiudere la categoria, perché la storia di Fay, teenager come tante che si ritrova improvvisamente perseguitata da un inquietante doppio, non ci ha convinti neanche un po’. Partendo come dramma familiare, Another me si trasforma pian piano in una sorte di thriller psicologico soprannaturale in cui la tensione però stenta ad arrivare, così come la credibilità della maggior parte dei dialoghi tra i personaggi. Il cast di volti noti, da Jonathan Rhys Meyers a Rhys Ifans, da Claire Forlani (ve la ricordate accanto a Brad Pitt in Vi presento Joe Black?) a Geraldine Chaplin non basta a colmare il vuoto narrativo di fondo che il film presenta sin dai primi minuti. E i temi ciclopici che la sceneggiatura sostiene di voler affrontare, come quello del doppio e del timore della perdita della propria identità, vengono in realtà solo sfiorati e mai approfonditi.
Fortunatamente la giornata ha avuto momenti più elevati.
Chiunque stamattina abbia avuto modo di assistere alla proiezione del bel documentario I Tarantiniani di Steve Della Casa e Maurizio Tedesco al MAXXI, sulle prime sarà stato senz’altro colto dal dubbio di non trovarsi al Festival di Roma, nel 2013, bensì in qualche sala cinematografica verso la metà degli anni settanta, complice la presenza all’evento del gotha del cinema di genere dell’epoca con, in prima fila, registi come Enzo G. Castellari, Sergio Martino e Umberto Lenzi e due dei loro attori feticcio, Franco Nero e Barbara Bouchet.
A riportare il tutto in un contesto più contemporaneo ci hanno pensato Eli Roth, reduce dagli applausi seguiti all’anteprima qui a Roma del suo The Green Inferno e amante indiscusso di quella stagione irripetibile del nostro cinema, e una piccola rappresentanza italiana di quei giovani autori che stanno, non senza una certa fatica, cercando di rinverdire i fasti del genere, Cosimo Alemà (autore del pregevole La Santa di cui abbiamo già detto giorni addietro) e Rossella De Venuto, regista dell’interessante thriller Controra.
I Tarantiniani, più che un’analisi tecnica dei sistemi produttivi e, soprattutto, narrativi che sottintendevano a quei film ingenerosamente definiti di Serie B, vuol essere un vero e proprio atto d’amore verso gli uomini che quel cinema hanno contribuito a farlo e che, negli anni, non hanno mai smesso di rivendicare il loro ruolo di artigiani piuttosto che di artisti, anche di fronte alla recente rivalutazione critica messa in atto proprio da quel Quentin Tarantino citato appunto nel titolo del documentario.
Il film segue quindi le vicende di questo manipolo di “cinematografari” a partire dalla nascita dello spaghetti western, che viene identificato come pietra angolare del genere in Italia, fino al poliziottesco e all’horror (e alle sue derive cannibaliche omaggiate da Eli Roth), alternando interviste e sequenze di film con un uso sapiente del montaggio che crea un piacevolissimo effetto nostalgia, pur tenendosi sempre lontano da qualsiasi stucchevolezza, anche grazie alla simpatia un po’ cialtrona dei soggetti interpellati.
Dopo la proiezione Eli Roth viene invitato a salire sul palco e illustra il fascino che film come Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato e Incubo sulla città contaminata di Lenzi esercitavano su di lui quando, ancora studente di cinema diciannovenne, ne divorava i VHS nella convinzione che in realtà si trattasse di film statunitensi. “Nulla infatti – dice Roth – dai titoli ai nomi dei registi opportunamente americanizzati, lasciava intendere che quelle opere potessero essere prodotte nello stesso Paese dove era nato il neorealismo.”
Se una pecca concettuale va rilevata nell’incontro di stamane – anche se è relativa all’intera corrente di riscoperta del genere – è sicuramente quella che si ostina a contrapporre questo al cinema d’autore, contraddistinto da velleità alte e, nelle parole dei vari Lenzi e Corbucci, sostanzialmente noioso.
Una delle massime lezioni che Tarantino, vero nume tutelare del progetto e citato più volte durante l’incontro, ha dato e continua a dare attraverso la sua opera è proprio come nel cinema – ma è un discorso valido più o meno per qualsiasi campo artistico – non ci sia più spazio per i concetti di “alto” e “basso” ormai da decenni.
Anzi – ed è addirittura Sergio Leone che lo spiega benissimo quando, in un momento de I Tarantiniani, traccia un parallelo tra il suo Per un pugno di dollari e La sfida del samurai di Kurosawa, da cui aveva tratto ispirazione – forse questa distinzione, una ragion d’essere, non l’ha mai avuta.
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