Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
C’erano tutti i presupposti per accogliere un film come The Canyons con l’entusiasmo e la fiducia delle grandi occasioni: il ritorno dietro la macchina da presa dello scorsesiano Paul Schrader a cinque anni di distanza dallo sfortunato Adam Resurrected, la prima sceneggiatura originale, dopo un poker di romanzi riadattati più o meno fedelmente in pellicole di discreto culto (fra cui gli ottimi Le regole del’attrazione e The Informers), dell’autore californiano Bret Easton Ellis, la natura orgogliosamente indipendente del progetto, fra una campagna fondi avviata sulla piattaforma web Kickstarter, un esiguo budget a quattro zeri e attori pagati il minimo sindacale di 100 dollari al giorno. Nonché, elemento di sicuro clamore, il coinvolgimento nel cast di una Lindsay Lohan mai così in parte dopo tre anni trascorsi fra spernacchiati impegni televisivi (come il risibile biopic su Liz Taylor), disastrosi cameo solo in superficie autoironici (il triste prologo di Scary Movie 5) e umilianti episodi fra cella e clinica che hanno preso definitivamente il sopravvento su una carriera in caduta libera.
Allo stesso tempo, tuttavia, era difficile dare credito ad un progetto che già in corso d’opera sembrava condannato al fallimento, e precisamente per le medesime ragioni di cui sopra, dall’impronta ormai debole di un cineasta che ha dato il suo meglio soprattutto dividendosi equamente fra copione e macchina da presa (Tuta blu, Mishima e, soprattutto, il dolorosissimo Affliction, forse il suo capolavoro) e che ancora fatica a trovare il proprio ruolo nel cinema del ventunesimo secolo.
The Canyons risulta così un’opera prigioniera della propria identità teorica e delle proprie pretese, vanificate da quel criterio forse non intenzionale di confondere umoristicamente fabula e messinscena, impostando il tutto come una vacua soap opera, con tutta la scipitezza, il piattume e il dilettantismo del caso, in quanto trasfigurazione ironica di quella vacua soap opera – un’autoassoluzione che finirebbe col giustificare anche il trash meno smaliziato e i suicidi artistici à la Kitano. Impossibile dire quanto siano stati effettivamente sinceri i propositi di Schrader, un professionista a cui tutte le debolezze e le fragilità maturate (non solo nel corso delle riprese, ma anche durante la travagliatissima post-produzione), sarebbero apparse più che manifeste, uno sviluppo blando e paludoso che dell’universo umano e della poetica di Ellis (e, nello specifico, del suo Imperial Bedrooms) sembra essere – di nuovo: volutamente? – un’autoparodia, una commistione di generi – melodramma altoborghese, commedia di costume, thriller erotico e via discorrendo – che probabilmente vorrebbe satireggiare i loro canoni e ribadire ulteriormente la morte della Settima Arte per come la conosciamo (i titoli di testa e di coda dove appaiono solo vecchie sale cinematografiche dismesse), ma che non graffia e non incide lungo tutte le direzioni che intende prendere, con un’accelerazione finale dopo oltre un’ora di dialoghi a tratti sfibranti che, invece di dare una brusca sferzata all’insieme, affossa definitivamente l’equilibrio del film.
Non c’è nulla di avvincente, di interessante, di vivo nelle disavventure vagamente porcellone – ma tutt’altro che spinte – di un sottobosco hollywoodiano corrotto, putrescente e cosmicamente solo ma tutto sommato a dir poco risaputo, visto che della solitudine inconsolabile e dell’isolamento autodistruttivo dei personaggi schraderiani più classici (dall’American Gigolò al tormentato sceriffo Whitehouse di Affliction, per non parlare, ovviamente, del suo Mishima) rimane soltanto la scorza. E che dello svolgimento stesso della storia, che Ellis stesso ha definito in toni ben poco lusinghieri come un “letargico noir di appena un’ora e mezza, ma che pare durare almeno il doppio”, alla fin fine non ci importa nulla. Se, dopo oltre dieci anni di sbandamenti e di progressivo distacco dal mestiere di sceneggiatore, Schrader ha finalmente raggiunto il punto più basso della sua carriera, allora non restano molte illusioni da farsi. Ma se, come è più auspicabile, The Canyons è stato solo il risultato di una burla da un quarto di milione di dollari, allora, a sghignazzo scemato – lo stesso che, senza troppe cerimonie, ha accolto il film alla sua (superflua, essendo già allora reperibile in home video) presentazione veneziana – è finalmente ora di tornare seri e di rimettersi al lavoro.
Voto 4
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