Blue Jasmine

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Alla felicità incondizionatamente si aspira, la si scorge nel mondo circostante o in un profilo, la si ridimensiona con l’inevitabile collisione con la realtà, la si vede ridotta a pochi, fragilissimi resti e, alla fine, vi ci si aggrappa con tutte le forze, complice spesso la pia illusione, per non sprofondare nella pazzia.
Se Erasmo da Rotterdam sosteneva che il solo prezzo da pagare per raggiungere e mantenere la felicità è solo un piccolo inganno di sé, cosa succede quando quest’ultimo assume proporzioni incontrollabili?
Nel meccanismo della pochade, il bugiardo rimane, in un crescendo irresistibile di equivoci, puntualmente vittima della propria rete di menzogne, mentre ai virtuosi resta solo da ristabilire l’ordine e da procedere indisturbati verso un finale lieto; ben poco da ridere, però, è rimasto nel cinema di Woody Allen, nella visione del mondo di un autore che già nelle insospettabili dissimulazioni farsesche degli esordi (culminate nel suo primo capolavoro, Amore e Guerra) lasciava trapelare un fatalismo e un pessimismo cosmico degno della grande tragedia classica.



Checché ne dicano i detrattori, il Woody Allen di oggi non ha davvero nulla di diverso dallo stand-up comedian di quasi cinquant’anni fa, e pecca di superficialità chi, incapace di distinguere il saltimbanco dall’artista, alla sua recente produzione continua a lamentare l’assenza delle battute fulminanti e delle gag esilaranti di un tempo. Perché l’ultima eroina alleniana porta a compimento quella fusione a tratti indistinguibile di comico e di drammatico, di ridicolo e di patetico che in tappe spesso trascurate come Melinda e Melinda aveva trovato la sua fase di crisi, e non è un caso che a dare il titolo al film sia proprio il suo nome, lapidario e solitario. Blu.

Quello di Blue Jasmine sembra infatti un soggetto troppo serio per far ridere e troppo leggero per commuovere, e proprio questa inusuale, scomoda irrisolutezza lo porta ad essere forse il film più coraggioso e scomodo di tutta la carriera di Allen, la lucida e disperata fotografia di una condizione umana appiattita e costretta ad arrendersi, nonostante una vita trascorsa inutilmente a ripetersi maniacalmente che tutto va bene – anche se così non è. Conosciamo Jeanette Francis (che al suo comune, volgare nome di battesimo contrappone un nome, Jasmine, che è già inutile maschera e menzogna) proprio nel corso di uno dei suoi racconti, impegnata a descrivere alla sua compagna di volo la girandola di lussi e di benessere che è ed è stata la sua vita, salvo poi scoprire che nessuno scambio è avvenuto fra le due donne, e che l’unica interlocutrice di Jasmine era proprio lei stessa.

Vedova di un plutocrate di Manhattan rivelatosi abile truffatore, Jasmine prolunga la propria illusione così, viaggiando in un posto di prima classe e con addosso abiti costosissimi che non può permettersi ma senza i quali il suo equilibrio crollerebbe immediatamente, ma le basta uno sguardo allo squallido quartiere popolare di San Francisco dove risiede la sorella Ginger, che si è offerta di ospitarla e di aiutarla a rimettersi in piedi, per rimpiangere angosciosamente gli agi dell’alta società newyorkese presso cui Jasmine aveva trovato la sua dimensione.
Tutto ciò che la attornia, dal rozzo futuro cognato Chili agli improbabili, insignificanti spasimanti, dal grigio nuovo impiego come segretaria di un dentista di periferia allo sciatto appartamento di Ginger rischia di farla crollare, almeno fino all’incontro con Dwight, un sofisticato diplomatico con cui risalire la china e ridare forma alle illusioni sembra in qualche modo di nuovo possibile.

Dietro gli echi della stretta attualità americana (nell’intrigo del marito di Jasmine si può riconoscere facilmente la frode multimiliardaria messa in atto da Bernie Madoff), nel contesto di Blue Jasmine si intravede l’apparato drammaturgico del capisaldo williamsiano Un tram chiamato Desiderio: il fascino quasi fiabesco della piantagione di Belle Reve sostituito dalle opulente, sterili residenze degli Hamptons, la violenta e annichilente carica erotica di Kowalski mutuata nell’innocua e tutto sommato amabile grossolanità di Chili e soprattutto una struggente Blanche DuBois romanticamente perduta nella misera reminiscenza del proprio passato trasformatasi in una fredda e inavvicinabile arrampicatrice sociale.

Le coincidenze con il testo di Williams, però, si fermano qui e Allen, pur riproponendo il suo canone di “ex-moglie nevrotica” che nella Judy Davis degli anni ’90 aveva trovato la sua massima espressione, qui si affida alla carica emotiva di una protagonista determinante come Cate Blanchett, assolutamente all’altezza di quello che è probabilmente il personaggio più compiuto e complesso di tutto il bestiario alleniano, una creatura a metà fra il mostruoso e l’umano, preda della contorsione delle proprie mani e dei suoi sguardi dolenti e persi nel vuoto, come una protagonista strindberghiana finita per caso in una commedia di costume; ma tutto, ancora una volta, suona perfettamente integrato con un discorso che anche nei momenti più bui si è mostrato assolutamente coerente, tant’è che che in Jasmine e Ginger, oltre a Blanche e a Stella, si riescono a intravedere una specie di versione adulta e sconfitta di Vicky e di Cristina, nel rimpianto per un’Età dell’Oro ormai perduta ci si riallaccia alla profonda malinconia di Midnight in Paris e persino del fin troppo maltrattato To Rome with Love, così come nello squallore indelebile del quotidiano si ritrovano gli insignificanti ma inesorabili drammi di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni.

E se per certi versi è difficile abituarsi alla progressiva “invisibilità” dello stile dialogico alleniano, finalmente ritroviamo un direttore di attori al massimo delle proprie potenzialità: se Cate Blanchett è, in definitiva, il suo più grande capolavoro di casting, gli attori di contorno (con la sola eccezione, forse, di Louis C.K., che dispiace vedere così sottoutilizzato, specie in quanto potenziale successore di Allen) sembrano tutti avere il proprio ruolo cucito addosso, dalla misuratissima Sally Hawkins al laido Andrew Dice Clay, dal ruspante Bobby Cannavale (forse il migliore del lotto) al viscido Michael Stuhlbarg, una specie di versione riveduta e tristemente realistica del consueto alter ego del regista.

Blue Jasmine è pertanto una pellicola sgradevole, crudele, ben lontana dai caratteri alleniani istituzionali e intrisa di un nichilismo a tratti sconfortante.
E in quanto tale, è una visione assolutamente immancabile.

Voto 8

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