Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
I Vanzina Bros., in evidente e prolungata crisi creativa, tornano sui luoghi che trent’anni fa ne decretarono il maggior successo commerciale in carriera e firmano una sorta di sequel (o forse è più un reboot?) di quel Sapore di mare di cui francamente nessuno sentiva né il bisogno né tanto meno la minima nostalgia.
La formula è più o meno la medesima: uno stabilimento balneare a Forte dei Marmi dove viziati figli di papà dall’amorino facile e adulti alle prese con tardive quanto irrefrenabili pulsioni erotiche si trovano a passare le vacanze estive.
Per garantire una continuità temporale al progetto, i Vanzina fanno cominciare il film esattamente in quegli anni ottanta in cui Sapore di mare si concludeva, anche se, alla luce del risultato, la scelta della decade di riferimento trova la sua unica ragion d’essere nell’ormai evidente incapacità dei due autori di staccarsi da quel periodo, più che in una questione di puntiglio filologico.
Enrico e Carlo Vanzina infatti sono, almeno da un punto di vista artistico, assolutamente figli degli anni Ottanta e non hanno mai fatto nulla, o forse non ne sono stati capaci, per evolversi anche un minimo da quell’idea di cinema semplice semplice, fatto di facili conquiste, baci in spiaggia e guitti fedifraghi.
Tutto ciò senza capire che se questa era una formula che poteva (a voler essere buoni) strappare un sorriso in quegli anni – che, ci piace ricordarlo, non erano votati al disimpegno per puro caso, ma quel disimpegno lo ricercavano perché utile a superare il peso della decade precedente – adesso il giochino non riesce più. E non bastano le smorfie e i birignao di Vincenzo Salemme (qui sacrificato nel ruolo di un arrapatissimo onorevole socialista) né la bonaria cialtroneria romanesca di un Maurizio Mattioli che idealmente vorrebbe ricordare Aldo Fabrizi, ma finisce in realtà per assomigliare a un Bombolo dei giorni nostri.
Non è sufficiente neanche il sarcasmo all’acqua di rose (il socialista con la mania del ballo riporta alla mente certe vecchie foto di De Michelis sul dancefloor) verso una classe politica per la quale, di fronte al vuoto pneumatico odierno, si prova più nostalgia che non reprimenda.
Invece i Vanzina, con un’ingenuità a tratti quasi commovente, credono che basti un accenno di True degli Spandau Ballet o un riferimento a Drive In perché sia subito, come per magia, il 1984.
E dire che non è la prima volta che il duo si ritrova a naufragare nelle perigliose acque del sequel venuto male: basti citare La mandrakata (seguito di Febbre da cavallo), Eccezzziunale veramente…capitolo secondo me e Sotto il vestito niente – l’ultima sfilata, film arraffazzonati alla bell’e meglio, il più delle volte senza nemmeno operare una variazione significativa dei titoli.
Certo, se il metro di paragone di Sapore di te è un qualsiasi cinepanettone, risulta evidente come il mestiere dei Vanzina dia al film una piccola marcia in più, in termini sia di scorrevolezza che di pura messa in scena.
A differenza dell’orripilante e scorretto Colpi di fortuna qui non c’è disprezzo per il pubblico, solo una sua pesante sottovalutazione.
E poi, a quale pubblico è indirizzato Sapore di te?
Chi gli anni Ottanta li ha vissuti, a occhio e croce, ha ben poca voglia di riviverli.
Chi non li ha neanche sfiorati preferirà in ogni caso vedere Hunger Games.
E i cinefili di entrambe le generazioni non si porranno neanche il problema, ché tra un po’ esce il nuovo Scorsese.
Voto 4
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