Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
In sala in occasione della Giornata della Memoria (27 e 28 gennaio), un film dedicato ad un filosofo, e non uno qualunque, ma ad una pensatrice del Novecento celebre per l’opera “Le origini del totalitarismo”. Roba da marziani, o forse da… tedeschi! Poteva infatti essere solo Margarethe Von Trotta a coltivare questo progetto con ostinata, coraggiosa passione – il soggetto del film risale a ben otto anni fa – fino a riuscire a realizzarlo dopo aver superato mille difficoltà. In particolare in Italia, dove la Ripley’s Film ha proposto l’opera a diversi soggetti cinetelevisivi i quali hanno declinato l’offerta perché il mercato italiano avrebbe sicuramente rifiutato un film simile… E pensare che, invece, Hannah Arendt ha trovato una distribuzione persino in Israele, dove la controversia al centro dell’ottica narrativa scelta dalla Von Trotta può, comprensibilmente, dar luogo a ben più furiosi scontri dialettici!
Il film, infatti, non è un classico biopic in cui viene ricostruita l’esistenza di un personaggio storico, ma si concentra su una vicenda incandescente qual è la partecipazione della Arendt al processo a carico del boia nazista Adolf Eichmann, svoltosi a Gerusalemme all’inizio degli anni ’60 dopo il suo sequestro in Argentina ad opera dei servizi segreti israeliani. Questo episodio consente alla pensatrice tedesca di origini ebraiche, egli stessa perseguitata dalla follia nazista, di poter finalmente esaminare da vicino la mostruosità di chi ha realizzato la Shoah: Eichmann, infatti, era incaricato della logistica dei trasporti delle vittime verso i campi di sterminio.
Ma la realtà portata alla luce dalle osservazioni della Arendt era piuttosto diversa da quella dominante fino ad allora: Eichmann, e come lui tanti altri funzionari del Terzo Reich, incarnava la “banalità del male”. Un’ottusa obbedienza e un grigio sistema burocratico avevano permesso lo sterminio di sei milioni di esseri umani, e non l’odio sovrumano che veniva attribuito ai tedeschi nei confronti degli ebrei per giustificare un simile orrore. Il volto smunto di Eichmann, gli occhiali appannati, la triste cravatta e i pesanti faldoni portati nella gabbia di vetro a lui riservata nell’aula del tribunale, tutto ciò indicava la mediocrità dell’individuo al quale era stata assegnata la responsabilità logistica del genocidio anziché una vis distruttrice.
Questo disvelamento provocò, tanto nell’opinione pubblica quanto in molti colleghi e sodali della Arendt, un’ondata di sconcerto che montò fino a diventare paradossale ostilità nei confronti di chi aveva osato mettere in dubbio le categorie nelle quali si era pensato di poter archiviare un fenomeno tanto spaventoso: non più eccezionale e pauroso moloch creato da un folle come Adolf Hitler, ma un oscuro, inesorabile meccanismo che ha potuto funzionare perché una muta schiera di impiegati aveva rinunziato alla facoltà umana di pensare (ed agire) autonomamente.
Un secondo elemento, però, ha caratterizzato la partecipazione di Hannah Arendt al processo: la rivelazione, che solo una mente libera come la sua poteva cogliere e riferire al pubblico, della connivenza di alcuni leader ebraici verso l’occupazione nazista e della loro passività di fronte alle deportazioni. Accuse che, peraltro, trovano riscontro in alcune delle immagini di archivio utilizzate dalla Von Trotta per raccontare il processo, dove alcuni dirigenti ebraici dell’epoca vengono aspramente contestati da spettatori evidentemente a conoscenza di quei misfatti.
Del resto, il film ben racconta come la Arendt scrisse il suo reportage per esclusivo amore della verità e per rispetto della memoria delle tantissime vittime innocenti, in nome della sua attitudine anti-identitaria (si rifiutava di barattare la rigorosa indagine filosofica con le ragioni dell’appartenenza). Ma – detto dei temi più scottanti affrontati da Margarethe Von Trotta – c’è tanto bellissimo cinema in questa sua coraggiosa opera: a partire dalla eccellente Barbara Sukowa, attrice-culto in gran parte della filmografia della regista, tutti gli attori sono ottimamente diretti, a comporre un quadro di grande vivacità umana e di stimolante dibattito, quasi un ping-pong tra la New York dei think-tank universitari e l’Israele dove le ferite della storia ancora a metà degli anni ’60 reclamavano una cura.
Come ha detto nel suo buon italiano nella conferenza stampa di presentazione svoltasi presso la Casa del Cinema di Roma, quest’ultima fatica della regista tedesca vuole parlarci sia di Hannah che di Arendt, ovvero sia della donna che dell’intellettuale. E ci è riuscita benissimo. Hannah Arendt sarà quasi sicuramente distribuito da Feltrinelli, in abbinamento con una edizione ad hoc del libro “La banalità del male”.
Recensione a cura di Roberto Dati
(www.binarioloco.it)
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