Lo sguardo di Satana – Carrie

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Carrie White (Chloë Moretz) è una diciassettenne timida e goffa. In una parola, impopolare.
Se le vessazioni subite da una madre (Julianne Moore) ossessionata da un’idea di religiosità castrante e gli scherzi crudeli dei compagni di scuola non fossero già abbastanza, ad amplificare il senso di inadeguatezza della ragazza contribuisce la scoperta di poteri telecinetici che le permettono di spostare o distruggere oggetti e che, se non controllati, potrebbero avere effetti nefasti.



Esattamente quarant’anni fa usciva Carrie, il primo romanzo di Stephen King.
Due anni dopo Brian De Palma prendeva quella storia di (stra)ordinaria emarginazione adolescenziale e ne traeva un disturbante capolavoro horror che ha marchiato a fuoco l’immaginario collettivo delle generazioni a venire, soprattutto in virtù delle sue due scioccanti scene madri (per la cronaca: la doccia e il ballo scolastico).

In un’epoca in cui il remake (quando non addirittura il remake del remake) sembra essere la via più facile per il successo al botteghino e i teen movie flirtano sempre più spesso con l’horror, la tentazione di aggiornare questo crudele inno alla diversità in chiave moderna deve essere sembrata davvero irresistibile e fa piacere, se non altro, che al timone dell’operazione non sia stato chiamato un qualsiasi mestierante, ma un’autrice come Kimberly Peirce, sicuramente estranea al genere horror ma ben avvezza alle problematiche di omologazione giovanile, come già ampiamente dimostrato nel suo indimenticato Boys Don’t Cry.

La scelta appare ancora più interessante se consideriamo come la particolare struttura di Carrie – di fatto un accumulo di elementi di forte pathos, tutti tendenti verso il deflagrante e sanguinoso climax finale – lo renda un horror piuttosto sui generis.
In tutta la sua parte centrale infatti, la Pierce sembra quasi dimenticare di avere a che fare con un film di genere e si concentra sulla scrittura di un amarissimo apologo sull’alienazione e sulla crudeltà dei rapporti giovanili e, lungi dal ricorrere ai barocchismi cari a Rob Zombie o alla cruenza visiva di un Alexandre Aja, sceglie di farlo adottando uno stile di regia scarno, fatto di toni dimessi, come per amplificarne la valenza drammatica.
In tal modo resta fedele all’originale senza però essere pedissequa, discostandosene giusto nell’utilizzo, da cui era francamente impossibile prescindere, della tecnologia moderna laddove, ad esempio, il celeberrimo scherzo della doccia viene ripreso con degli smartphone e prontamente caricato su Youtube.

Il risultato è più che buono – soprattutto se consideriamo il valore del Carrie di De Palma – e in alcuni punti realmente perturbante. E se Chloë Moretz, a fronte di tutta la sua bravura, non regge appieno il confronto con Sissy Spacek (la Carrie del ’76), il vero punto di forza del film risiede nella generosissima interpretazione di Julianne Moore.
L’attrice infatti, azzerando completamente il suo enorme fascino, dà corpo a questa folle figura di madre, autentico crogiolo umano di fanatismo religioso e autolesionismo, a metà strada tra American Gothic e Le streghe di Salem.
E’ a lei e ai suoi occhi spiritati che si devono i sussulti maggiori provocati dalla visione di questo film che – senza raggiungere le vette, ad esempio, del bellissimo remake de La Casa girato lo scorso anno da Fede Alvarez – spaventa e, soprattutto, fa riflettere su come spesso la crudeltà di certi atteggiamenti (e di certi scherzi) faccia molta più paura dei poteri paranormali.

Voto: 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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