Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
I verdetti della 86esima edizione degli Oscar difficilmente verranno annoverati fra i più sorprendenti e imprevedibili nella storia della manifestazione: dopo l’ulteriore – e per certi versi definitiva – conferma dei pronostici sancita ieri sera dai BAFTA, il copione sembra mantenersi inalterato di settimana in settimana fra Golden Globes, Critics’ Choice Awards e sindacati di ciascuna professione a seguire, con un sempre più probabile split McQueen-Cuaron nelle due categorie principali e un quartetto di attori con la statuetta praticamente sul caminetto di casa.
A garantire una certa competizione e a complicare il lavoro degli allibratori sarà soprattutto quella cinquina di documentari così a fatica impostasi nelle preferenze dei votanti fra lacune eccellenti e dilemmi formali.
Se tre concorrenti di prestigio come il discusso e polemico Blackfish, l’eccezionale Stories We Tell – fra i titoli più memorabili e amati di tutto Venezia69 – e lo spassoso Tim’s Vermeer hanno dovuto pagare lo scotto di un anticonformismo e di un’originalità troppo destabilizzanti per il proverbiale conservatorismo dei membri dell’Academy, dai contendenti rimasti in gara – e in particolare da tre di essi – è automatico evincere tre contrapposte, curiose prospettive sul mondo della non-fiction: da un lato, 20 Feet from Stardom sembra voler proseguire nel solco un po’ abusato della seconda occasione e nel topos dello sconosciuto alla ribalta aggirandosi nell’universo scarsamente illuminato delle coriste pop-rock con intenti fin troppo simili a quelli del fortunatissimo Sugar Man; dalla parte diametralmente opposta, si situa The Act of Killing, sensazionale, herzogiano e destabilizzante ritratto di ordinaria bestialità realizzato fra mille pericoli nella vita quotidiana degli ormai anziani aguzzini del Nuovo Ordine indonesiano, un capolavoro tenuto in palmo di mano dalla critica internazionale e dal pubblico più smaliziato ma a tratti fuori luogo nel clima mondano, rassicurante e americanocentrico delle statuette losangeline, nonostante il BAFTA fresco di assegnazione.
Esattamente a metà fra queste due tendenze si pone The Square, il terzo componente di peso della compagine, quello che nel bene e nel male finisce per bilanciare i punti di forza gli eccessi e le asperità degli avversari di cui sopra: le coordinate sono quelle dell’inchiesta civile e del diario dal basso dei grandi sommovimenti storico-politici, nella fattispecie il triennio durante il quale la Rivoluzione del Nilo confluì e prese forma in Piazza Tahrir, il principale centro di aggregazione della capitale egiziana, per rovesciare inizialmente la trentennale dittatura di Hosni Mubarak e, successivamente, il regime islamico militare del presidente Mohamed Morsi.
In un’epoca in cui persino nell’orbita mainstream le stantie, rigide demarcazioni fra cinema di finzione e documentario sono lentamente venute meno, anche The Square si sforza di dissimulare il suo scopo esplicativo-divulgativo adottando un linguaggio e una struttura improntati alla fiction, ma il risultato convince a metà: l’approccio della cairota Jehane Noujaim è invero piuttosto superficiale e trainato da un facile effettismo che dà più l’impressione di scimmiottare i canoni più artificiosi della narrativa filmica, fra sequenze di raccordo da videoclip, interi passaggi eccessivamente studiati per essere davvero spontanei (specialmente la partecipazione del guerrigliero Ahmed, che scandisce il ritmo del film con una voce off da libro stampato), una pessima, invasiva colonna sonora preoccupata solamente di spingere pleonasticamente sul pedale della retorica e altri elementari escamotage più consoni alla drammatizzazione televisiva (sfocature, ralenti, montaggio sincopato) che al reportage.
E’ un vero peccato, anche perché tanto la materia quanto il girato parlerebbero già abbastanza da soli senza ricorrere a sovrastrutture e a pesanti interventi registici, le riprese degli scontri fanno effettivamente venire i brividi e restituiscono un minimo di naturalezza all’insieme e gli spunti interessanti non mancano, come la scelta di promuovere a vicenda di primo piano i tormenti di coscienza del Fratello Musulmano Magdy, scisso fra la propria fede religiosa e il legame d’amicizia con le frange laiche della rivolta, ma sono solo lampi nel buio: il tono didascalico messo alla porta rientra infatti dalla finestra, guidando lo spettatore dall’inizio alla fine senza fargli porre alcuna domanda sulle contraddizioni e sulle fragilità dell’Egitto moderno, riportandolo al punto di partenza, ricco delle medesime, supposte certezze che aveva all’inizio.
The Square, che negli States ha fatto parlare di sè più per le sue peculiarità produttive (una consistente percentuale del budget viene dal crowdfunding) e distributive (si tratta della prima candidatura all’Oscar per un prodotto diffuso dal servizio on demand Netflix) è forse il film giusto con cui l’uomo della strada potrà arricchire le proprie conversazioni spicciole sulla realtà politica del Medio Oriente, ma per la cronaca completa, equilibrata, appassionante e – per assurdo, vista la base finzionale – autentica di un Paese sull’onda del cambiamento, allora tanto vale (ri)vedere No di Pablo Larrain.
Voto 5
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