Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
L’immagine che inaugura la carriera da filmmaker del videoartista Steve McQueen è una di quelle che già da sole connotano, prefigurano e riassumono una poetica definita e una carriera intera: in un programmatico vacuum sonoro, delineati appena da un bianco e nero ipercontrastato, due uomini nudi si fronteggiano per dieci minuti in un indecifrabile scontro a metà fra la lotta e l’amplesso, in un aggrovigliarsi di corpi dove il furore si confonde con l’erotismo e il dominio sull’altro può significare allo stesso tempo attrazione e sopruso.
E’ quindi ai primordi sperimentali di questo Bear, dell’altrettanto minimale Deadpan – una rivisitazione in chiave ancora più stoica della celebre gag della casa di Io… e il ciclone di Buster Keaton – o del semidocumentarismo criptico di Western Deep, girato nell’oscurità assordante e impenetrabile di una miniera d’oro sudafricana, che bisogna riallacciarsi per comprendere appieno gli elementi costitutivi ed estetici dell’approdo di Steve McQueen al circuito maggiore e al cinema “che conta”. Ancorché connotato da un’impronta più tradizionale – una scelta i cui benefici e scompensi saranno trattati in seguito – 12 anni schiavo prosegue idealmente quell’ormai ventennale discorso incentrato sui limiti e sul potere dell’uomo in quanto materia, su ciò che Foucault ha descritto come “tecnologia politica del corpo”, un sistema che di volta in volta sopprime e sfrena dall’esterno (il fetido inferno carcerario di Hunger) o dall’interno (l’irrefrenabile libido di Shame) la natura dell’invididuo.
Dopo gli scioperi della fame di Bobby Sands e la rapacità sessuale di Brandon Sullivan, il regista inglese racconta la lunga e reale cronaca di sopravvivenza del carpentiere e musicista nero Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), nato libero nella New York di inizio Ottocento e ridotto con l’inganno in stato di schiavitù nella Louisiana ancora pre-abolizionista, e al centro di tutto il discorso sulla dialettica servo-padrone è sempre il corpo, ancora una volta martoriato, annullato dalla violenza, ridimensionato a puro fascio di istinti, ma sempre riconosciuto – come nelle dirty protests di Hunger e nella vorace attività (auto)erotica di Shame – come il veicolo comunicativo più potente di tutti. Più che per il contributo di agenti esterni, Northup ritrova la libertà grazie alla sua autocoscienza, alla sua strategia fisica e alla fede incrollabile nella propria identità, che lo spingerà a rifiutare costantemente il nome impostogli dai suoi proprietari e a non arrendersi ad una sottomissione ormai radicatasi anche psicologicamente nei suoi compagni di reclusione.
Cambiano quindi diametralmente le finalità dell’espressione corporale mcqueeniana, che nei primi due lungometraggi coincideva con un cupio dissolvi lento e inesorabile – ancora ravvisabile nel personaggio di Patsey (Lupita Nyong’o) -, mentre qui ogni tappa del supplizio è un impercettibile ma necessario passo verso l’autoconservazione: prigione forse anche più ineludibile delle piantagioni di cotone e delle celle sovraffollate è quindi l’Uomo stesso, barricatosi nel suo status e nella sua mancanza di prospettive, condizione contro cui Northup, a differenza degli altri, oppone una provenienza e un’intelligenza superiore a quella degli aguzzini.
Se quindi, tutto sommato, 12 anni schiavo può considerarsi perfettamente integrato nell’universo tematico e filosofico dell’autore londinese, a volte si ha l’impressione che il contesto e la riverenza storica prendano eccessivamente il sopravvento sul resto e che soffochino l’impianto del film e il talento del suo artefice, che non a caso si è visto costantemente soffiare quasi ogni premio alla regia dal rivale Alfonso Cuarón. Ponendosi fin troppo al servizio della Storia e della storia, McQueen smorza quella potenza e quell’impatto che hanno contraddistinto così fortemente i suoi lavori precedenti, rimasti oggetti inavvicinabili per buona parte del pubblico; il calvario di Solomon Northup, che resta pur sempre un antidoto rinfrancante e una botta di autenticità rispetto – per rimanere nel 2013 – alle bambinesche amenità di Django Unchained o alla melassa indigeribile di The Butler, appare forse più risaputo e canonico del previsto (anche per via della lunga tradizione letteraria e cinematografica legata all’argomento), meno ambiguo e urgente di quello vissuto dagli attivista dell’IRA di Hunger, meno metafisico e coinvolgente di quello incarnato dal sessodipendente di Shame, ma soprattutto meno autentico, originale e memorabile nel suo insieme.
Rimangono scampoli anche sostanziosi dello straordinario metteur en scène beniamino dei maggiori festival europei, nella fattispecie i momenti in cui i dialoghi si fanno da parte per lasciar parlare le immagini, come la prolungata scena della tentata impiccagione, un capolavoro visivo e sonoro di assoluta tensione in cui McQueen sembra sviluppare le teorie della sua installazione Just above my Head, la cruentissima punizione di Patsey, risolta con un insostenibile pianosequenza o il silenzioso amplesso nella baracca nel quale un taglio di luce nel buio, due sguardi e un’inquadratura fissa bastano per restituire tutta la disperazione della segregazione. Si tratta però di episodi purtroppo circoscritti e sacrificati ad un apparato narrativo sostanzialmente convenzionale nel quale situazioni e personaggi raramente travalicano i propri canoni (il patrono dal cuore d’oro, il supervisore sadico, il laido mercante di uomini e così via…) e nel quale viene a mancare la laconicità salvifica dello stile di McQueen, questa volta – e si vede – solo regista.
E se come di consueto il lavoro sugli attori di primo piano può dirsi impeccabile (Ejiofor strabilia nel suo difficile equilibrio fra martirio e dignità, Fassbender interpreta magistralmente e senza birignao un villain sofferto e inquietante e la Nyong’o è una vera rivelazione, ma anche il custode luciferino di Paul Dano non è da meno), la circostante sagra del cameo, fra un Brad Pitt – anche produttore ed epicentro della discussa campagna promozionale nostrana iniziale – più vanesio del solito, un irrilevante Paul Giamatti e uno spento Benedict Cumberbatch che, dopo I segreti di Osage County, si dimostra ancora immaturo per il grande schermo, pare artificiosa e male assortita, messa insieme più per fare numero che per effettiva necessità.
Nei confini di una produzione americana mainstream, 12 anni schiavo si staglia per onestà, completezza e fattura su molta concorrenza e costituirà di certo un capitolo importante tanto per la cinematografia hollywoodiana quanto per una comunità black ancora in cerca di affermazione definitiva sul campo, ma è un passo indietro, forse solo una parentesi, per un artista di assodato valore come McQueen, da cui sarà lecito – se non addirittura categorico – aspettarsi di più.
Voto 7
Il talento di Mr. McQueen, re del cinema indie, per la prima volta al servizio di una produzione mainstream.
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