Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
La storia è più o meno nota a tutti.
Una notte Dio appare in sogno a Noè (Russell Crowe) e gli annuncia l’imminente diluvio che distruggerà una Terra ormai irrimediabilmente corrotta dagli uomini, investendolo della responsabilità di provvedere alla salvezza di tutte le specie animali che dovranno poi ripopolarla.
L’uomo, dotato di una fede incrollabile, dedica quindi il resto della sua vita alla costruzione di un’enorme imbarcazione dove stipare la sua famiglia e almeno due esemplari (un maschio e una femmina) di tutti gli esseri viventi.
Se la storia dell’arca di Noè, nella Genesi, viene in realtà sviluppata in poche pagine, Aronofsky (The Wrestler, Il cigno nero) ne trae ispirazione per il più titanico dei suoi progetti realizzati finora e, nel farlo, decide di focalizzare l’attenzione sulle profonde contraddizioni morali del personaggio di Noè – disposto a sacrificare qualsiasi affetto in nome del compimento della sua missione – e delinea una figura di patriarca invasato che trova una corrispondenza pressoché perfetta nella ieratica fisicità di Crowe.
Più fedele al testo di quanto non facciano in genere gli americani alle prese coi temi biblici, l’autore scatena la sua ipertrofica immaginazione giusto per quanto riguarda l’inserimento nella storia di un antagonista (il sempre magnifico Ray Winstone) – ché un film del genere sarebbe ben poca cosa senza la presenza di almeno un villain – ma ha la geniale intuizione di non rendere mai netta la distinzione tra bene e male.
In totale sintonia con la durezza drammaturgica tipica del Vecchio Testamento, qui non ci troviamo infatti al cospetto di un eroe che persegue il bene in termini assoluti, semplicemente perché è il concetto di morale a non essere definito in senso moderno.
Noè è un uomo che rimprovera il figlio perché coglie un fiore strappandolo alla terra, ma allo stesso tempo lascia che migliaia di innocenti muoiano al di fuori dell’arca e accetta, pur con riluttanza, di uccidere la sua diretta discendenza in nome di un disegno divino che ha la presunzione di comprendere appieno.
Questa è la risposta definitiva a chiunque si sia chiesto se ci fosse effettivamente bisogno di una trasposizione cinematografica della storia dell’Arca.
Se infatti da un lato Aronofsky calca la mano su un pessimismo cosmico che è sempre stato la costante di ogni suo lavoro (basti ricordare la mezzora finale di Requiem For A Dream, quanto di più cupo e nichilista si sia mai visto al cinema) e che vuole evidentemente creare un parallelo tra l’odierna decadenza e quella che ha portato all’apocalittico diluvio, ciò che in realtà gli preme è evidenziare la cecità di certe ortodossie religiose.
Di fronte alla possibilità di salvare delle vite umane, Noè decide di chiudere tutto il dolore del mondo fuori dalle pesanti porte dell’arca e, in questa immensa solitudine, trasfigura invece in una versione biblica di Jack Torrance chiuso in un Overloock Hotel galleggiante da cui è bandita qualsiasi forma di contatto umano, persino con una moglie (Jennifer Connelly) che, seppure devota, cerca di convincerlo a rivedere la rigidità delle sue posizioni.
C’è della follia in Noè e nella fissità del suo sguardo ed è qualcosa che Aronofsky sembra non giustificare mai del tutto, tranne che in un finale che doveva essere per forza di cose (del resto non poteva fare altrimenti, la storia finisce bene) tendente al consolatorio.
C’era tanta paura per questa incursione di Darren Aronofsky in un cinema più dichiaratamente mainstream. Paura che il suo personale e riconoscibilissimo stile potesse andar perso in un kolossal fatto per piacere a tutti (un po’ quello che è successo a Peter Jackson con la Trilogia del Signore degli Anelli), per di più tratto da una storia così universale.
Il risultato invece conforta abbastanza. Noah infatti, pur non essendo né un capolavoro né tanto meno il film più personale dell’autore di The Fountain, conserva comunque ben chiare le tracce dei suoi topos visivi, solo in parte viziati da una grandeur visiva resa ancora più sfarzosa da un 3D in realtà abbastanza inutile.
Voto 7
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
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