Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Robin Wright è un’attrice di mezza età che si ritrova ad affrontare l’inevitabile viale del tramonto, frutto di una serie troppo lunga di scelte sbagliate.
Il suo agente Al (Harvey Keitel) riesce, nonostante tutto, a farle ottenere un provino per un’ultima scrittura.
Non si tratta però di una parte in un semplice film, ma della digitalizzazione della sua immagine e della sua intera gamma espressiva, in modo che il colosso hollywoodiano della Miramount possa utilizzarla per una serie potenzialmente infinita di ruoli senza che lei debba mai più recitare.
Anzi, il contratto prevede che la Robin Wright reale si impegni a sparire dal proscenio e ad invecchiare in privato, mentre la sua versione digitale continuerà a recitare, per sempre giovane, in film su cui non ha più il minimo potere di veto.
Molti attori hanno già firmato questo tipo di contratto e Robin, spinta anche dalle esigenze economiche che le cure del figlio disabile comportano, accetta.
Vent’anni dopo, questa tecnologia è degenerata fino alla sintesi di una droga che permette a chiunque di assumere identità fittizie (in molti casi proprio quelle di star di Hollywood) in un mondo completamente animato in cui, almeno apparentemente, essere felici.
Robin, per la prima volta dopo la firma del contratto, esce dal suo isolamento per partecipare a un congresso della Miramount (diventata nel frattempo Miramount-Nagasaki) durante il quale scoppia una violenta rivolta.
Di lì in avanti i confini tra realtà e allucinazione si fanno sempre più confusi, mentre la donna cerca in tutti i modi di fare ritorno alla sua vita reale.
A più di un anno dalla sua presentazione al Festival di Cannes del 2013, trova finalmente una distribuzione italiana il nuovo film di Ari Folman, che torna alla regia a cinque anni da Valzer con Bashir e realizza un’opera spiazzante, una delle declinazioni più dure e meno consolatorie di futuro distopico che si siano viste al cinema negli ultimi anni.
Ispirato in parte al racconto The Futurological Congress di Stanislaw Lem, The Congress parte da uno spunto per molti versi simile a quello che muoveva S1m0ne di Andrew Niccol (gli Studios risolvono il problema della sempre crescente ingestibilità dello Star System, sostituendo di fatto gli attori con dei cloni-schiavi che si limitano ad obbedire agli ordini) per poi mostrare, attraverso un flashforward, le derive totalitarie di questa scelta. Ed è in questa seconda parte – quella prettamente animata – che l’immaginario dell’autore israeliano deflagra, investendo lo spettatore con suggestioni di inaudita potenza visiva.
C’è infatti un’importante frattura, sia strutturale che semantica, che non si limita a connotare il passaggio del film da live action a cartoon, ma che ne dirotta la linearità della narrazione per come l’abbiamo percepita fino a quel punto, verso lidi che ricordano molto da vicino un’esperienza di tipo lisergico.
L’impressione è che, subito dopo averci indicato la direzione, Folman perda gradualmente interesse nei confronti del puro racconto e – quasi come David Lynch da Strade Perdute in poi – decida di perdersi tra le pieghe più oscure (e quindi meno sicure) della sua trama, portando lo spettatore con sé.
Anche quando il film sembra perdere la sua stella polare significante, sopraggiungono scampoli di senso che danno nuove sfumature di colore al quadro nel suo complesso.
Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che stiamo parlando di un film tutt’altro che facile.
The Congress richiede infatti un piccolo sforzo iniziale per entrarci dentro, ma è uno sforzo che, sulla lunga distanza, ripaga e regala una riflessione lucidissima, anche se a tratti eccessivamente apocalittica, sul valore dell’essere umano oggi e sulla corsa alla negazione di sé dietro modelli estetici e culturali totalizzanti.
Un applauso quindi ad Ari Forman e a questa notevolissima conferma del suo stile visionario – qualcosa a metà strada tra Terry Gilliam e Katsuhiro ?tomo – qui aiutato anche da un budget più corposo rispetto a quello di Valzer con Bashir, per quanto forse l’elemento di maggior pregio di questo The Congress risieda nella performance magnetica di Robin Wright, interprete immensa di sé stessa (o di una delle possibili Robin Wright) con un’ironia e una generosità rare per una star hollywoodiana.
Ed è indicativo il fatto che, alla fine di un film che ruota tutto intorno alla negazione della fisicità a favore di una mendace perfezione virtuale, l’immagine che rimane più impressa sia il primo piano che lo apre e che ci mostra la sua bellissima protagonista piangere guardando fisso la macchina da presa, quasi ad avvertirci che ciò a cui stiamo per assistere sarà in parte anche doloroso.
Doloroso quanto necessario.
Voto 8
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
La trasfigurazione del reale secondo Ari Folman, in un film che fonde animazione e live action con una sorprendente Robin Wright.
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