E’ con una giornata quasi interamente dedicata alla non-fiction che si apre la 36ª edizione del Festival Cinematografico Internazionale di Mosca, con una scelta che prende le distanze almeno temporaneamente, viste le imminenti invasioni di Transformers e rivoluzioni di scimmie, dalla tradizionale partenza a tavoletta con il blockbuster di turno.
La sezione competitiva riservata ai documentari, accolta da una platea ancora limitata a poche decine di spettatori, trova il suo apripista nel polacco Deep Love, cronaca della riabilitazione non tanto fisica, quanto psicologica ed emotiva del sessantenne Janusz Solarz, sommozzatore professionista ridotto alla semi-paralisi da un infarto ma non per questo minato nello spirito e nell’entusiasmo verso la sua antica passione.
L’esordiente Jan P. Matuszynski non ci risparmia nessuna tappa del percorso di Solarz lungo la lenta, limitata riconquista delle sue possibilità motorie, al punto, per certi versi, da avvicinarsi più al tono adulterato e iperprodotto del linguaggio finzionale che alla secchezza e al realismo del reportage, ricorrendo a insistite scene madri, a bassi trucchetti di retorica come le onnipresenti musiche di Atanas Valkov, invasive fino all’insopportabilità e alla canonica impostazione da piccolo calvario che, più che coinvolgere, ricatta e basta.
Rimangono solo una innegabile confezione curata – in fin dei conti, produce la branca europea della HBO – e l’evocativa, quasi herzogiana fotografia delle sequenze subacquee, firmata, peraltro, dal nostro Roberto Rinaldi.
Decisamente più riuscito è il secondo concorrente della divisione Libero pensiero, il notevole L’expérience Blocher, impietoso e ravvicinatissimo ritratto del noto – per non dire famigerato – leader anti-europeista che alla fine del secolo scorso portò l’orientamento già conservatore dello Schweizerische Volkspartei alle posizioni xenofobe e parafasciste di oggi: il regista Jean-Stéphane Bron non fa segreto delle proprie idiosincrasie nei confronti dell’oggetto della sua indagine e mette immediatamente in chiaro la propria distanza dalle ideologie portate avanti dal suo partito, preoccupandosi di raffigurare Blocher “non come un diavolo, ma nemmeno come un angelo”. Il risultato è la descrizione caustica e provocatoria di un geniale affabulatore, un anti-eroe tragico a metà fra Jean-Marie Le Pen e Macbeth, fra Charles Foster Kane e il dottor Mabuse, un titano del populismo dotato di abissale intelligenza politica e di un altrettanto becero potere di suggestione sulla pancia del proprio elettorato, spaventoso nelle sue arringhe da sagra paesana e nella tessitura dei suoi intrighi, impagabile e trascinante nelle sue sortite canore e nella sua disinvoltura plurilinguistica. Sfociando in gustosi slanci orrorifici (le riprese aeree dell’auto che vaga nei boschi vengono dritte da Shining, le asettiche inquadrature fisse dal sedile del passeggero riportano alla mente Cosmopolis), il progetto possiede un irresistibile fascino, avvince e persino diverte, anche se Bron si indirizza con una certa facilità a spettatori già convinti della propria ideologia.
Il film di apertura della rassegna, lo statunitense Red Army, richiama finalmente la folla al Teatr Kinoaktera e l’occasione non potrebbe essere delle più ghiotte: il diario pubblico e privato della star dell’hockey sovietico Slava Fetisov e dei suoi compagni di squadra è anche un pretesto per riflettere sui lati allo stesso tempo più nascosti e popolari delle fasi terminali della Guerra Fredda, l’epoca di apparente disgelo durante la quale gli atleti dell’incrollabile formazione olimpica si ritrovarono contemporaneamente a sognare l’Occidente e a rimpiangere la Patria, a vagheggiare quell’impiego professionale negato dal Politburo e a non perdere la propria identità in quell’ostile campionato d’oltreoceano dove capirono presto di essere pesci fuor d’acqua.
Complice anche la breve durata, l’opera seconda di Gabe Polsky dopo il bel The Motel Life (visto e accolto con entusiasmo al Festival di Roma nel 2012) è un gioiello di sintesi e di ritmo, abile a riassumere senza troppi sconti – salvo un passaggio tutto sommato in glissando sul ruolo di Vladimir Putin, di cui Fetisov è stato peraltro Ministro dello Sport fino al 2008 – i tormenti e le contraddizioni della rinascente società russa e a sviluppare quel discorso sulla fratellanza e sul senso di appartenenza inaugurato dal film d’esordio.
Sincopato, curatissimo e totalmente dominato dal carisma dell’intervistato, Red Army non si rivolge esclusivamente alla minoranza degli intenditori di hockey, ma si serve del suo denso contesto storico-sportivo per illustrare un’umanità divisa fra speranza e compromesso, capace di ritrovare nei propri irrefrenabili volteggi sul ghiaccio quella libertà negata e quella logica sacrificata alla repressione.
La giornata si chiude risibilmente con l’ultima fatica del 76enne Claude Lelouch, che indefesso continua a riversare su pellicola quanto di più rassicurante e prevedibile ci si aspetta dal suo cinema, quella combinazione micidiale di patemi alto-borghesi e di idilli leziosi messi in scena con il solito stile da stracchissima telenovela patinata: in Salaud, on t’aime, il patriarca di una famiglia allargata fino all’autoparodia (un incartapecorito Johnny Halliday) intende richiamare al nido, un casolare montano preso di peso dagli spot del Mulino Bianco, le quattro figlie avute da quattro donne diverse, ma non ha fatto i conti con i loro rancori e con l’iniziativa dell’amico medico (Eddy Mitchell, anch’egli con un passato da musicista), che forse è al corrente di qualcosa che lui non sa. Fra dialoghi antidiluviani (si può sentire, nel 2014, qualcuno esclamare “sì, sono malato: malato di amore per te” senza sprezzo del ridicolo?), panorami da cartolina, personaggi insignificanti – compresa la povera Sandrine Bonnaire – e conflitti drammaturgicamente nulli, deve passare un’ora e mezza fra allegre tavolate, sorrisetti ed equivoci all’acqua di rose perché accada qualcosa, e quando finalmente scatta la tragedia ciò accade nel modo più gratuito, goffo e comico concepibile.
Con questo spettacolino buono al massimo per i telespettatori Mediaset della domenica pomeriggio, Lelouch dimostra una volta di più nella sua interminabile carriera che, pur con due Oscar e una Palma d’Oro in saccoccia, del suo bonario e inoffensivo piccolo mondo alto-borghese nessuno ha mai avuto bisogno e che se il cinema francese oggi ha raggiunto uno status di prestigio inequiparabile al resto d’Europa è stato anche nonostante operine inconsistenti come le sue.
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