Festival di Mosca – Giorno 2

Di Andrea Bosco
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Fratelli: confessione finale

Per aprire la categoria competitiva riservata alla fiction, il 36° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca sceglie di scatenare il vespaio come nelle migliori risse televisive e offre a una platea invero ridotta all’osso il suo concorrente ucraino, Braty: Ostannya spovid (Fratelli: Confessione finale): sulle vette bianchissime dei Carpazi, gli ottantenni Voykto e Stanislav portano avanti da una vita una misteriosa faida fratricida che li ha costretti alla semi-immobilità e alla malattia terminale, ma sarà solo grazie all’intervento di una donna, una scrittrice mistica venuta da lontano per accudirli, che si farà luce sulle vere cause dello scontro.
Viktoria Trofimenko esordisce alla regia con una parabola intrisa di simbolismi biblici e di domestici giochi al massacro che non sarebbe dispiaciuta a Bergman (il testo d’origine è infatti uno dei più recenti romanzi dello svedese Torgny Lindgren) e dà l’impressione, malgrado le ripetute smentite in conferenza stampa, di trasporre le vicende alla luce dei contemporanei conflitti intestini fra Mosca e Kiev: l’occhio della regista si aggira fra eleganti panoramiche in un ambiente rurale regredito all’ancestralità e filma, con una certa raffinatezza e muovendosi fra piani temporali intrecciati, quello che però si rivela essere uno spunto piuttosto esile, specie se spalmato oltre le due ore di durata. Seme della discordia è, naturalmente, un’altra donna, l’infedele moglie di Stanislav, divisa sentimentalmente fra i due consanguinei, ancor più quando la nascita del figlio Demiyon farà vacillare il già instabile equilibrio familiare. Ci si ritrova spesso, nonostante la cura dell’insieme, nel già visto e nel ridondante, con il solito ricorso al doppelgänger (nella protagonista scatta l’identificazione con la donna amata in gioventù dai due anziani), alle metafore ascetiche – con tanto di “crocefissione” finale – e alla provocazione gratuita (la scena della masturbazione), ma l’ottima performance dei tre attori di primo piano e l’atmosfera immersiva degli ambienti riescono comunque a salvare il film dal fallimento.

Timbuktu

La pellicola d’apertura di Cannes 67 è anche il primo dei numerosi ospiti – fra cui, a sorpresa e all’ultimo momento, Winter Sleep di Ceylan – provenienti dalle sezioni principali dei festival europei maggiori: Timbuktu di Abderrahmane Sissako, approdato a Mosca anche in veste di membro della giuria, conferma le recensioni entusiaste ricevute sulla Croisette e si segnala come la prima opera imprescindibile della rassegna: variegato mosaico sul volto umano e sulla deriva repressiva della società islamica, l’ultima fatica del regista mauritano è una cronaca asciutta e a tratti leggera sul repentino insorgere dell’oppressione, un racconto svincolato dalle regole più rigide della drammaturgia che ricorda per certi versi il miglior Iosseliani (si pensi a Un incendio visto da lontano, giusto per non allontanarsi troppo geograficamente) e che fotografa alla perfezione un panorama subsahariano nel quale modernità e tradizione sortiscono la medesima impressione anacronistica e inopinata. Senza calcare mai la mano sulla tragedia, sul compiacimento e sull’allegoria, Sissako mescola registri e linguaggi con grande disinvoltura, fra una dinamica e fluidissima variazione calcistica della celebre chiusura di Blow-up, un’indimenticabile sequenza notturna attraversata da una suspence quasi hitchcockiana nella quale il delitto di turno consiste unicamente in una innocente sessione musicale casalinga e una raffigurazione atavica della violenza e della natura tipica della cinematografia locale da Yeelen di Cissé in poi (esemplare, in questo senso, e a modo suo iconico il dilatato campo lunghissimo dopo l’assassinio del pescatore). L’epilogo muto, una corsa solitaria ma collettiva verso il niente che pare uscita da un film di Naderi, è il punto di raccordo ideale per un complesso narrativo di corroborante semplicità e di commovente coinvolgimento.

Pelo malo

La divisione Anima Latina prende il via nientemeno che con il vincitore dell’ultimo Festival di San Sebastián, il venezuelano Pelo malo, secco diario di crescita di un ragazzino circondato dalla ferocia e dalla barbarie dell’invivibile periferia di Caracas. Il ritorno dietro la macchina da presa di Mariana Rondón, transitata con successo anche allo scorso Festival di Torino, è un appassionante scavo infantile di stampo quasi zavattiniano che intende essere soprattutto un inno alla libertà formativo-sentimentale del bambino e un’accusa a tutte le forme di condizionamento, intimo e comunitario, che ne minacciano la purezza.



In una terra di nessuno ai limiti del suburbano dove le case popolari formano una catasta ineludibile e soffocante che occupa tutto lo schermo, il novenne Junior attraversa l’età delle prime pulsioni sessuali e deve fare i conti tanto con la severità prevaricatrice di una madre guarda giurata resa vedova dalle scorrerie delle gang del posto quanto con l’invasività di una nonna paterna che forse vuole accelerare un po’ eccessivamente i tempi: la prima lo pretende etero, onde evitargli un (breve) futuro di abusi in un vicinato da legge della giungla, la seconda ne incoraggia le tendenze effeminate convinta di poterlo tenere distante da quell’habitat brutale che ha ucciso il suo primogenito.

La Rondón non concede risposte consolatorie e cerca di individuare il torto e la ragione di ambo le parti, puntando il dito tanto contro l’omofobia, quanto contro le ingerenze di carattere opposto, e lasciando che a decidere l’orientamento affettivo sia solo e solamente l’esperienza diretta, naturale e incondizionata del soggetto: la prospettiva è naturalmente posta al livello dei suoi piccoli personaggi, pedinati nei semplici e decisivi episodi quotidiani di formazione, da quelli più sereni (il gioco “voyeuristico” iniziale fra Junior e la sua amica ossessionata dai concorsi di bellezza, che sfrutta con bella ironia lo squallore del paesaggio) a quelli più traumatici (l’amplesso in bella vista cui la madre fa assistere Junior con fini “terapeutici”), culminando con una conclusione tutt’altro che rassicurante che sembra ammiccare a La moglie del soldato. Il risultato è un film tanto minuscolo quanto autentico, pulsante e sorretto da una coppia genitrice-figlio di non professionisti assolutamente perfetta.

La distancia

La distancia

Poco, praticamente nulla da dire sul successivo La distancia di Sergio Caballero, regista catalano: un’autentica porcata pseudo-dadaista che vede protagonista tre nani telepatici assoldati da un artista del paranormale dalla testa di argilla per recuperare da una centrale elettrica il non meglio identificato dispositivo del titolo. Ad aggiungersi all’affastellarsi di bizzarrie, un demone transdimensionale che si nutre principalmente di mortadelle con sopra inciso il nome di Yoko Ono, una popputa croupier di Las Vegas – raggiunta via collegamento mentale, ça va sans dire – che funge da segreteria telefonica comunicando i propri messaggi con vigorose leccate di alluci e un secchio sputafumo che si strugge d’amore per un comignolo e che parla in giapponese.
Un esercizio di sfacciate libere associazioni come La distancia è uno scherzo formato cineteca che serve soprattutto a dimostrare l’effetto dell’avanguardia post-lynchiana sulle menti deboli – e c’è chi, all’anteprima di Rotterdam, ha sciaguratamente tirato in ballo pure Tarkovsky -, ma da un burlone che ha dichiarato con orgoglio di scrivere le proprie sceneggiature sull’Iphone c’era da aspettarsi, in fin dei conti, davvero poco.

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