Festival di Mosca – Giorno 4

Di Andrea Bosco
Share
Adieu au langage

Adieu au langage

Ci si riaffaccia sul 67° Festival di Cannes con l’ultimo (e per molti versi definitivo) lavoro di Jean-Luc Godard, quell’ Adieu au langage che qualifica l’autore di La cinese come l’unico possibile epigono postmoderno della poetica di Méliès, se non addirittura dell’indagine pioneristica dei Lumière: suscita ancora stupore la facilità con cui Godard approccia la materia cinema destrutturandola e negandola a partire dalle sue componenti più basilari e, oggi, scontate con la stessa sicurezza di un Picasso o di uno Steve Reich: Adieu au langage è una di quelle opere che mette tutto in discussione, a cominciare dall’uso della terza dimensione, tecnica che il cineasta francese – similmente a quanto fatto da Lynch con il digitale nel suo Inland Empire – sfregia e violenta sottoponendo l’occhio dello spettatore a drastiche, programmatiche scomposizioni (assolutamente da manifesto sono i momenti in cui le due immagini sovrapposte non coincidono in nulla, provocando una sensazione di disorientamento totale).

“Il presente è morto”, esclama uno dei personaggi, e lo smascheramento a opera di Godard del carattere fasullo della rappresentazione, simile a una coltellata di Fontana, non potrebbe risultare più chiaro, fra canali audio abbandonati a loro stessi, stacchi di scena repentini, dialoghi composti in grandissima parte da citazioni – scelta irrinunciabile dai tempi di Nouvelle vague – e il ricorso a un numero infinito di formati video, quasi tutti rigorosamente in bassa qualità. Adieu au langage, oltraggioso cine-poema, è anche un elogio della nudità, artistica e antropologica, un invito a ripartire da zero cancellando decenni di auto-suggestione (la prima didascalia recita, in fin dei conti: “Se l’immaginazione ha fallito, non resta che rifugiarsi nella realtà”) e avvicinandosi al mondo con primitiva curiosità. Alter ego del regista, pertanto, non può che essere il cane Roxy, che si aggira per la pellicola inconsapevole delle mistificazioni sociali e beatamente all’oscuro della distinzione fra Natura e Metafora (i due capitoli in cui il film è diviso), e la sua fuga finale oltre lo schermo ci fa intendere che l’opera di contestazione di JLG è tutt’altro che giunta al termine.

Hardkor Disko

Hardkor Disko

Il concorso riprende con la rabbiosa scarica antiborghese di Hardkor Disko, ritratto asettico e nichilistico della Polonia del ventunesimo secolo e del suo clima intriso di neo-edonismo post-sovietico e di corruzione latente.
Il tema dell’intruso che si infiltra con fini demolitivi all’interno dell’istituzione familiare non è sicuramente nuovo e viene da pensare che tanto Teorema di Pasolini, quanto Visitor Q di Miike e, ovviamente, Funny Games di Haneke, la più evidente fonte di ispirazione, abbiano affrontato l’argomento con maggior coraggio e criterio dell’esordiente Krzysztof Skonieczny, che abbastanza furbescamente lascia il pubblico senza risposte sulle origini e sulle ragioni del male.



La misteriosa vendetta del giovane Marcin, compiuta come intermezzo fra squallidi rave casalinghi e stordimenti assortiti, procede con precisione sistematica, quasi chirurgica, in un bizzarro equilibrio di dilatazioni smodate e di furibonde accelerazioni. Ed è proprio nell’impostazione registica, più che nel soggetto, il motivo di interesse di Hardkor Disko, nobilitato da una messinscena straniante e radicale che ricorda le più recenti invenzioni della New Wave greca: il distacco della cinepresa, che indugia ipnoticamente in lentissime panoramiche e in lunghe inquadrature fisse, sa infatti trasmettere un palpabile senso di inquietudine, grazie anche alla spettrale presenza del protagonista Marcin Kowalczyk, e infonde notevole fascino a molte sequenze (l’interminabile conversazione a tavola, che potrebbe andare avanti per ore, e l’omicidio del padre, decisamente anticlimatico), e, pur se a volte si ha l’impressione che Skonieczny debba ancora lavorare un po’ per affrancarsi da certi canoni estetizzanti derivanti dalla sua carriera nel videoclip, ciò che rimane a fine visione è comunque una discreta variazione su un assunto ormai cristallizzatosi nell’immaginario contemporaneo.

A Most Wanted Man

La giornata si chiude con l’attesissimo clou della sezione competitiva, la coproduzione anglo-americana A Most Wanted Man, che sancisce il ritorno al lungometraggio, dopo il disastroso The American, del film-maker olandese Anton Corbijn e forse l’unica parentesi autenticamente internazionale a una rassegna finora sedimentatasi sul Vecchio Continente. Il film segue fedelmente gli sviluppi del romanzo Yssa il buono di John Le Carré e imbastisce un complesso di intrighi e di doppi giochi che vede coinvolti agenzie di intelligence europee e statunitensi, ambigui fuggitivi ceceni, presunti terroristi islamici e varia cospirante umanità.

Corbijn smussa i difetti e i toni pretenziosi della sua fatica precedente e affida l’adattamento al commediografo australiano Andrew Bowell, concentrandosi sulla meccanicità dell’intreccio evitando di sbrodolare e ponendosi invisibilmente al servizio della storia e del suo importante stuolo di attori, praticamente tutti costretti a sfoggiare accenti improbabili, da cui è capace – un po’ insospettabilmente – di ottenere il meglio del loro potenziale. Rachel McAdams dimostra di avere un limite alla propria connaturata cagneria, Willem Dafoe tiene a bada le smorfie e sfodera una prova per una volta non sopra le righe, Robin Wright ripropone il ruolo di subdola macchinatrice che in House of Cards l’ha vista rinascere artisticamente, ma è soprattutto Philip Seymour Hoffman, mai così appesantito e affannato, a risplendere con una performance crepuscolare e fisicissima degna dell’Al Pacino degli anni Novanta. Certo, siamo pur sempre nell’ambito di un onesto prodotto mainstream con poche particolari pretese e a tratti inamidato, alcune sbavature si notano (in primis, l’effettivo protagonista Yssa, che il russo Grigoriy Dobrygin interpreta senza mai alzare nemmeno un sopracciglio) e la localizzazione amburghese, fondamentale sulla pagina scritta, non lascia il segno e non assurge mai, come invece accadeva alla Londra de La talpa, a vero personaggio di primo piano come vorrebbe. Restano però due ore abbondanti di spettacolo intelligente e ricco di sfumature, nella speranza che Corbijn ritrovi un tocco più personale con la sua imminente pellicola sul fotografo Dennis Stock.

Share

Comments

About author

Leave a reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

+ 88 = 96

Per offrirti il miglior servizio possibile il sito utilizza i cookie. Proseguendo la navigazione, ci autorizzi a memorizzare ed accedere ai cookies di questo sito web. Leggi l'informativa

The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.

Chiudi