E’ difficile che la sezione competitiva del 36° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca possa sollevarsi dalla medietà e a trovare finalmente un’unitaria, equilibrata identità se il livello dei prossimi concorrenti si assesterà su quello dell’odierno Reporter, unica pellicola proveniente dal Benelux.
Thriller psicologico sulle tracce del De Palma meno patinato e dell’Egoyan degli anni migliori, il film diretto da Thijs Gloger ritrae lo squallido stato di solitudine del mitomane cinquantenne Fritz e la sua morbosa fascinazione nei confronti del corpo dei vigili del fuoco del quartiere, di cui segue maniacalmente gli spostamenti spacciandosi per cronista: a fargli da spalla nelle sue spedizioni è il piccolo Johan, figlio del vicino di casa, suo unico compagno di giochi di bambinone decisamente troppo cresciuto, almeno fino alla prevedibile tragedia finale.
Gloger sa trasmettere il clima di diffidenza e di alienazione della periferia amburghese e trova nel massiccio e rubizzo Albert Secuur un interprete efficace, che però non riesce mai a suscitare autentica inquietudine o ambigua compassione: il suo anti-eroe è un personaggio tutto sommato monocorde, caratterizzato con troppa scontatezza (naturalmente la sua condizione è la conseguenza dalla solita educazione paterna repressiva e Johan non è altro che una trasfigurazione di lui stesso da ragazzino) e limitato da uno sviluppo narrativo sostanzialmente ripetitivo che procede per accumulo fino all’improvvisa catarsi. Anche lo stile è abbastanza incerto, funzionale quando si mantiene sobriamente sul piano della realtà (il pianosequenza di Fritz che curiosa all’interno della stazione dei pompieri), assai meno quando plasma la dimensione interiore del suo protagonista, con scene che sembrano uscire dall’universo bizzarro di Edgar Wright, genio e ironia a parte. Reporter poteva essere il ritratto interessante di una psicopatologia generazionale e, contemporaneamente, un’amara considerazione sul ruolo dell’immagine, invece è solo una blanda variazione su un tema stravisto.
Dopo la trascurabilissima commedia georgiana Blind Dates, una logora storiella sui single di mezza età inserita in programma esclusivamente in virtù della presenza in giuria del regista Levan Koguashvili e avvincente quanto la visione della vernice fresca che asciuga, si ritorna sulla Croisette per l’ultima fatica di Wim Wenders, l’eccezionale The Salt of the Earth, toccante riassunto dell’opera e dell’esplorazione antropologica del fotografo Sebastião Salgado, co-diretto e seguito in primissima persona dal primogenito di quest’ultimo, Juliano. L’alfiere del Nuovo Cinema Tedesco dimostra ancora una volta di aver, quantomeno nell’ultimo quindicennio, tanto guadagnato nel proprio talento di documentarista quanto perso nel proprio cammino nella fiction, e tesse con grande sensibilità e con incontenibile coinvolgimento le fila della crescita professionale e umana di un superbo indagatore del pianeta, seguendo le tappe soffertissime di una progressiva perdita e riscoperta di fiducia verso l’Uomo e la Natura.
I lavori dell’inventore di immagini brasiliano sono quindi un pretesto per portare avanti quel ragionamento sul viaggio e sulla prospettiva cominciato ai tempi di Alice nelle città, con una deriva primitivista vicina agli ultimi Herzog (non a caso, un altro gigante teutonico che col cinema di finzione ha smarrito la scintilla) e una riflessione sul multimediale di spiazzante modernità, sulla scia del precedente, ottimo Pina: il risultato commuove, incanta e trasporta in mondi lontanissimi eppure innati, confutando tutte le possibili accuse di spettacolarizzazione del dolore mosse al metodo di Salgado – sostenute, fra gli altri, dalla scrittrice Susan Sontag – per concentrarsi sul percorso strettamente intimo e personale dell’artista, con la qualità tutt’altro che scontata di soddisfare i già iniziati al suo lavoro e di accendere sincero interesse nei neofiti.
Dopo il piatto e televisivo reportage israeliano Web Junkie, che parte dallo spunto indovinato di analizzare il controverso fenomeno dei centri di riabilitazione per internet-dipendenti in Cina ma che rimane banalmente in superficie, mancando totalmente l’occasione di allargare il discorso alla soffocante censura del web ad opera del governo di Pechino e illustrando un mondo di giovanotti attaccati a Warcraft con cui è davvero arduo solidarizzare, è il turno di un altro ritrovato di Cannes, il disperatissimo Tore tanzt, opera prima della tedesca Katrin Gebbe: il Tore del titolo, adolescente di Amburgo membro di una comunità punk cristiana su modello dei Bambini di Dio, è già a partire dai suoi biondissimi riccioli e dal suo sguardo innocente una figura esplicitamente cristologica, un Messia declinato nella desolata suburbia nord-europea e posto alla mercé della frustrazione del ceto medio di oggi.
Il canone dell’intruso che si inserisce nei meccanismi e nelle gerarchie della famiglia borghese questa volta funziona al contrario, con quest’ultima a fare non da vittima impotente, ma da sadica carnefice, dando il via a una via crucis che, dalle lievi tensioni iniziali, sfocia irresistibilmente nel sangue. La Gebbe dà vita a una passione di palpabile sordidezza e comunica con successo l’assurdità del Male incarnato dall’inquietante pater familias Benno, ma, nella sua fattura che ricorda a tratti l’austerità del Dogma95, cede nella seconda metà a un fastidioso e ricercato autocompiacimento, indugiando negli stati sempre più profondi della degradazione del suo personaggio, che viene, in sequenza, importunato, isolato, picchiato, intossicato, stuprato, mutilato e, infine, ucciso.
E suona solo ipocrita la didascalia in chiusura, che ci informa che ciò che si è visto è tratto da vicende realmente accadute: non basta dichiarare la veridicità dei fatti per giustificare una messinscena che scade spesso nel cinico e nello sprezzante, così come non serve trascendere nel gratuito e nel sentenzioso (“siamo una famiglia normale”, mormora la moglie di Benno durante il massacro conclusivo) per dare forza al calvario.
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