Dopo una pre-apertura a tinte forti interamente dominata dalle Giornate degli Autori, scandita dalle fughe adolescenziali dello scandinavo He ovat paenneet (atroce) e del britannico The Goob (salvabile, ma canonico e scritto col pilota automatico), dalle consuete, inconsapevolmente autocaricaturali provocazioni di un Kim Ki-Duk ormai relegato al circuito minore insieme al suo immondo One on One e dall’ormai collaudata formula da romanzo young adult sbrigliato ed estremizzato di Christophe Honoré, calatosi per l’occasione nella mitologia ovidiana con il suo Métamorphoses, è il turno di una nuova inaugurazione lidense in grande stile affacciata su Hollywood e, potenzialmente, sulla prossima edizione degli Oscar. A un anno di distanza dal giorno che diede il via alla inarrestabile marcia trionfale di Gravity, è un altro titolo a stelle e strisce, questa volta in Concorso, ad aprire ufficialmente la Mostra e a garantire alla manifestazione qualche fascio di riflettori.
L’attesissimo Birdman è un’overture festivaliera scanzonata e atipica che riporta idealmente al Venezia65 del Burn after Reading coeniano e un appuntamento di irresistibile richiamo per chi, affezionato al grave e solenne microcosmo tragico di Alejandro González Iñárritu, ha fino ad oggi faticato ad immaginarne un potenziale contraltare comico: definitivamente affrancatosi dal canone hyperlink dell’ex-collaboratore Guillermo Arriaga e rialzatosi dopo la brutta, cristologica caduta di Biutiful, il regista di Babel ritrova i co-sceneggiatori Nicolás Giacobone e Armando Bo ma assesta un colpo deciso e spiazzante alle certezze del suo cinema aprendo per la prima volta all’ironia e alla satira, se non addirittura alla parodia, tanto del proprio universo autoriale quanto di molta produzione mainstream contemporanea.
E’ facile vedere nell’ordinaria via crucis dell’attore in declino Riggan Thomson (Michael Keaton, indovinatissimo e commovente nel ruolo della sua vita) una sorta di versione demistificata della sequela esagerata di sfighe del protagonista del film precedente, ma Iñárritu, lungo l’impietoso ritratto di una crisi di mezza età, coinvolge nel gioco tanto la grammatica della messinscena, con lo sciamano del long take Emmanuel Lubezki a farsi beffe della tecnica che gli assicurò la statuetta per Gravity con un lavoro di ripresa e di montaggio che dà l’impressione di un unico, fasullissimo pianosequenza, quanto la mitologia dei generi, con il filone supereroistico dominatore del box office a rappresentare la più ineludibile delle gabbie dorate: non è un caso che, attorniato da un cast di comprimari che annovera Edward Norton, Naomi Watts, Emma Stone e Andrea Riseborough (vista in W.E. al Lido tre anni fa), a dominare quasi autobiograficamente la pellicola sia il pioniere degli uomini mascherati dell’era moderna, l’uomo sotto il mantello dei Batman di Tim Burton, che azzecca un tardivo rilancio dopo quasi un ventennio di oblio.
La mattinata prosegue nella sezione Orizzonti con un altro insperato ritorno, quello dell’iraniano Mohsen Makhmalbaf, che si riaffaccia alla fiction dopo un lustro abbondante con la produzione georgiana The President. Con l’arresto di Jafar Panahi, per i cineasti di Teheran si è aperta definitivamente una fase diasporica alla ricerca di un’espressione più libera e di un bacino culturale più ampio – si pensi al Giappone di Qualcuno da amare o di Cut, alla Francia de Il passato, alla Turchia di Rhino Season o all’Italia di Copia Conforme e dell’imminente Monte -: non fa eccezione, oggi, il Caucaso del maestro di Pane e fiore, che con il suo immaginario dittatore ad aggirarsi sotto mentite spoglie e con la sola compagnia del nipotino fra il popolo di lui liberatosi dopo un golpe sembra per certi versi la prosecuzione naturale di quel Pentimento di Tengiz Abuladze che esattamente trent’anni fa fece conoscere al mondo il nuovo cinema di Tbilisi.
Makhmalbaf va controcorrente, non rinuncia alla prospettiva sociale e cerca di ritrovare la sua dimensione nonostante l’agguerritissima leva dei Farhadi, dei Ghobadi e dei Pitts gli abbia di fatto rubato la scena: ne risulta un film orgogliosamente fuori dal tempo e dalle mode, un’opera aggrappata a metafore e simbologie radicate nel suo passato da attivista, una parabola che si allontana dalle traversie della madrepatria solo geograficamente – ma neanche più di tanto – e che sa comunicare quella volontà instancabile e disperata di non perdere mai di vista la realtà del proprio Paese.
Ritornano le Giornate degli Autori per il primo ospite del pomeriggio, il newyorkese Before I Disappear, remake in forma di lungometraggio di quel Curfew che, dopo un’incetta internazionale di premi del pubblico, polverizzò la concorrenza alla penultima edizione degli Oscar nella categoria riservata ai corti: quello che poteva essere il Locke della situazione deve fare i conti con uno dei vecchi e spietati adagi della creazione filmica – confermatoci l’anno scorso, fra l’altro, dall’insignificante L’Arbitro di Paolo Zucca – e cioè che un’ottima idea compressa in meno di venti minuti difficilmente conserverà la medesima efficacia se dilatata a novanta. Il factotum Shawn Christensen si cala nuovamente nei panni del depresso baby-sitter suo malgrado Richie, ritrova, appena un po’ cresciuta, la protagonista pre-adolescente del progetto originale (la rivelazione Fatima Ptacek) e tenta di rafforzare il cast di contorno con nomi di peso, dalla Emmy Rossum de Il fantasma dell’opera al televisivo Paul Wesley – che i patiti del piccolo schermo ricorderanno in The Vampire Diaries -, senza dimenticare il mai abbastanza apprezzato Ron Perlman (aka Hellboy), ma lo scarto fra il materiale di partenza e gli obbligatori sviluppi ex novo è troppo a vantaggio del primo e viene l’amaro in bocca al pensiero che il talentuoso regista abbia preferito rimanere pigramente sul sicuro invece di investire tutto su un’idea nuova e originale.
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