Venezia 71 – Giorno 3 – Video

Di Andrea Bosco
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Andrew Garfield, Ramin Bahrani, Michael Shannon e il produttore Ashok Amritraj

Per la terza volta consecutiva al Lido dopo il Premio Fipresci per Goodbye Solo e la promozione in sordina in competizione con il melodramma minnelliano At Any Price, con 99 Homes Ramin Bahrani continua il suo discorso sulle ambiguità del Sogno Americano, sul lato torbido del self-made man e sulla corruttibilità dell’individuo comune posto di fronte all’avanzamento sociale. Il regista di Winston-Salem si serve ancora una volta di un viso comunemente associato alla cultura teen – due anni fa fu il turno dell’ex-efebo Zac Efron, ora tocca invece al nuovo Spider-Man Andrew Garfield – per raccontare l’incombenza della crisi presso una generazione di ventenni d’Oltreoceano rimasta troppo sotto la campana di vetro della famiglia borghese, il vecchio adagio hobbesiano dell’uomo come lupo per l’altro uomo – si parla della realtà più spietata dell’imprenditoria edile, fra sfratti, pignoramenti e pratiche bancarie senza scrupoli – e l’impotenza e la crudeltà dei padri (veri o putativi, come il Dennis Quaid della precedente fatica o il ripugnante e, come al solito, straordinario Michael Shannon di oggi).



Bahrani tenta ancora di coniugare le basi indipendenti e periferiche del suo mestiere – collabora in veste di cosceneggiatore il maestro Amir Naderi, forse il più necessario cineasta iraniano in attività, presente a Venezia con un fluviale documentario su Arthur Penn – con le esigenze di Hollywood, però il risultato è nuovamente un ibrido sospeso a metà, nobile sulla carta ma privo di un’identità forte e programmatico nel suo percorso di degenerazione, di tormento e di riscatto.

Barbora Bobulova e Peppino Mazzotta per Anime nere

Dopo una veloce sortita in Orizzonti con Heaven Knows What dei fratelli Joshua e Ben Safdie, ambizioso e ammorbante amour fou tossico dei bassifondi newyorkesi che pare seguire la scia tanto del realismo sordido del celebre Panico a Needle Park di Schatzberg quanto quello della metafora vampirica del The Addiction ferrariano, si passa finalmente al primo dei tre concorrenti tutti letterari di casa nostra: Anime nere. Tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, la pellicola diretta da Francesco Munzi è una mini-epopea familiare ombrosa, ruvida e priva di compromessi che porta a un livello ancor più evoluto, complesso e universale quel cinema della violenza e del buio – declinato nel disperato riscatto sottoproletario di Saimir e nella vacua desolazione alto-borghese de Il resto della notte – che è ormai parte fondativa e caratterizzante della poetica del regista romano, mai compiaciuta né estetizzante, ma solo cupa e profondamente reale.

Per dare un volto alle tre possibili scelte di tre fratelli calabresi di fronte al sistema malavitoso organizzato – la partecipazione attiva di Luigi, l’accettazione ipocrita di Rocco e l’estraneità eremitica di Luciano -, Munzi pesca tanto dal piccolo schermo (Marco Leonardi, decisamente a suo agio nel personaggio dopo miniserie come Il capo dei capi e Il generale dei briganti, e Peppino Mazzotta, l’ispettore Fazio de Il commissario Montalbano) quanto dal palcoscenico (il volto severo di Fabrizio Ferracane, forse il migliore del trio) e avvolge il tutto nella nerissima, notturna fotografia del fedele Vladan Radovic: ne esce un film coraggioso e per certi versi grandioso, lontanissimo dai parametri abituali della cinematografia nostrana, capace di confrontarsi con l’esempio dei grandi ritrattisti criminali europei (Audiard, in primis), di permettersi paralleli con la saga coppoliana del Padrino (nei fratelli minori quasi si scorgono i profili di Sonny e di Michael Corleone) e, nella migliore delle ipotesi, pronto ad aggiudicarsi uno dei riconoscimenti maggiori, lanciando finalmente anche in ambito extrafestivaliero uno dei nostri autori più peculiari e, nonostante il Nastro d’Argento per l’opera prima del 2006, mai abbastanza apprezzati.

Kathryn Hahn, Peter Bogdanovich e Owen Wilson

A calmare le acque e a garantire un minimo di distensione è il successivo ospite Fuori Concorso, l’insperato ritorno sulla scena del settantacinquenne Peter Bogdanovich, che contribuì in maniera fondamentale alla nascita della Nuova Hollywood con classici di rottura come Bersagli e Paper Moon, ma ancor più con il capolavoro crepuscolare L’ultimo spettacolo: il veterano statunitense tenta con il suo She’s Funny That Way di intessere insieme all’ex-moglie co-sceneggiatrice Louise Stratten una commedia sofisticata, maliziosa e orgogliosamente fuori moda – il titolo cita pur sempre uno standard reso celebre da Frank Sinatra – su modello del suo esilarante Ma papà ti manda sola?, fra poligoni amorosi che coinvolgono frustrati registi di Broadway, puttane col pallino della recitazione e psichiatre ridotte peggio dei loro pazienti. Ma i tempi sono inevitabilmente cambiati e, nonostante l’impegno profuso, il glamour di stelline emergenti come Imogen Poots e di divi come Owen Wilson e Jennifer Aniston non può reggere il confronto rispettivamente con le Streisand, gli O’Neal e le Kahn di allora. In quanto al tentativo di svecchiare la formula con il contributo in veste di produttori delle garanzie indie Wes Anderson e Noah Baumbach, è tutta invisibile fatica sprecata.

Si ritrovano le atmosfere cruente di inizio mattinata, invece, con l’asiatico Binguan, che apre la vetrina della Settimana della Critica e che porta l’esordiente regista Xin Yukun nei territori delle sortite neo-noir della produzione cinese contemporanea, dall’inedito  Black Coal, Thin Ice di Diao Yinan (Orso d’Oro a Berlino64 e da noi recensito in occasione di Mosca36) a, soprattutto nel comune delinearsi di storie intrecciate a base di omicidi ed efferate crudeltà, Il tocco del peccato di Jia Zhangke (Prix du scénario a Cannes66) confermando la svolta “trasparente” e occidentalista del recente cinema d’autore di Pechino con un’opera tanto elaborata e complessa quanto gratificante, puntellata da colpi di scena continui à la Agatha Christie e trainata da una narrazione per ellissi, analessi e salti in avanti che mantiene una tensione insostenibile per le sue importanti due ore nette di durata.

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