Venezia 71 – Giorno 9

Di Andrea Bosco
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Avrà anche vivacizzato la passerella e spostato il baricentro della Mostra nuovamente verso territori più mainstream, ma il Cymbeline di Michael Almereyda, che torna a confrontarsi con Shakespeare e ad aggiornarlo con gli stessi discutibili esiti di Hamlet 2000, è stato accolto da fischi finora rimasti relativamente contenuti nelle sale del Lido.



Vuoi per un testo di partenza debole – e infatti raramente rappresentato, vuoi per una coltre di attori male assortiti (i giovani, Anton Yelchin e Dakota Johnson, sono a dir poco pietosi, Ethan Hawke rispolvera tormenti amletici senza impegnarsi troppo e Milla Jovovich come regina cattiva è di rara cagneria), vuoi per le solite attualizzazioni gratuite, il risultato è un autentico disastro e pianta il chiodo definitivo sulla bara della già poco brillante sezione Orizzonti.

Retour à Ithaque

Non va meglio nelle Giornate degli Autori, nella quale la Palma d’Oro Laurent Cantet conferma il suo momento di stanca con le ciarle piagnucolose e para-generazionali di Retour à Ithaque (di imminente uscita in sala in Italia): che il prodigio in grado di regalarci capolavori come Risorse umane o La classe fosse anche capace di trascendere tristemente in territori à la Salvatores e di dare vita a un Grande freddo lagnoso, stereotipato e putrefatto – sembra a tratti di assistere al film fasullo visto da Nanni Moretti in Caro diario (“Siamo invecchiati, siamo inaciditi, siamo disonesti nel nostro lavoro…“) – era al di là di ogni concepibile immaginazione. Fra i cinque insostenibili cinquantenni a rimuginare a ruota libera su una terrazza de L’Avana, interpretati nonostante tutto da attori professionisti, è davvero difficile scorgere un lampo di autenticità o qualcosa di più di un sistema ammuffito di archetipi da ABC dell’aspirante sceneggiatore (il cafone arricchito, l’alcolizzato redento, la bella sfiorita e via discorrendo). Nell’apparato dell’operazione, che si svolge praticamente in tempo reale in due soli ambienti, si intuisce ancora il mestiere registico del Cantet che fu, ma tutto il resto fa cadere le braccia e spegne ogni voglia di appassionarsi e di partecipare.

Qin Hao, Wang Xiaoshuai e Lu Zhong per Red Amnesia

Decisamente meglio fa l’unico partecipante cinese del Concorso, l’impegnativo Red Amnesia: dopo il più metaforico 11 Flowers, il quarantottenne Wang Xiaoshuai torna a riflettere sulle scomodissime eredità della Rivoluzione Culturale virando addirittura in insospettabili territori mystery con tanto di telefonate anonime, episodi di stalking e persecuzioni assortite. La storia scorre con qualche evitabile lungaggine – le quasi due ore di durata si sentono tutte – e con cambi di registro a volte stonati (le apparizioni fantasmatiche, i tentativi di jump scare, le scene oniriche), ma quando si arriva gradualmente allo scioglimento più tragicamente reale e plausibile possibile, si capisce che l’intento di Xiaoshuai è ancora una volta di natura coraggiosamente storico-politica. Una bella sorpresa, dunque, che peraltro trascina una protagonista straordinaria come la rivelazione settantaquattrenne Lü Zhong verso una Coppa Volpi ormai scontata.

Atteso quanto temuto, approda in Sala Darsena la mattina seguente il Pasolini di Abel Ferrara, che fa sprofondare nuovamente il Concorso negli abissi raggiunti solo dal terribile The Cut di Fatih Akin. Il maestro di Fratelli, i cui apici di carriera a questo punto viene lecito accreditare al contributo fondamentale del compianto Nicholas St. John, si rivela essere la scelta più sbagliata e pretenziosa per tentare l’impresa sciagurata di tradurre in immagini gli ultimi sogni e progetti dell’intellettuale romagnolo (soprattutto il romanzo Petrolio e il film Porno-Teo-Kolossal, con un metacinematografico Ninetto Davoli nei panni del protagonista destinato a Eduardo de Filippo) e ciò che ne esce è un pasticcio indegno minato da idee registiche biasimevoli.

Willem Dafoe, Adriana Asti, Ninetto Davoli, Abel Ferrara e Riccardo Scamarcio

Come i dialoghi introdotti timidamente in italiano e condotti poi interamente in inglese con risultati ridicoli (tanto valeva puntare all’artificio puro con la lingua di Albione dall’inizio alla fine o scegliere interpreti esclusivamente nostrani), da scelte di casting scellerate (Willem Dafoe, assolutamente inadeguato e cane come al solito, è solo un tizio truccato da PPP con una voce inaccettabilmente cavernosa, la Laura Betti di Maria de Medeiros è pura macchietta e il Ninetto Davoli di uno spaesatissimo Riccardo Scamarcio fa venire i conati), da una pressoché totale mancanza di rispetto per la materia (le sventagliate presunte certezze di Ferrara sull’omicidio all’Idroscalo si traducono in puri vaneggiamenti e in un cinico massacro) e dall’arroganza senza pari di un autore che si sente onnipotente nel suo concretizzare l’incompiuto e che invece ha da tempo perso ogni lucidità.
Un obbrobrio indecente, insomma, reso ancora più insopportabile dalle sue fallite intenzioni celebrative.

Martin Gschlacht, Veronika Franz e Ulrich Seidl

Martin Gschlacht, Veronika Franz e Ulrich Seidl

Si recupera in Palabiennale uno dei protagonisti Fuori Concorso della rassegna, il documentario Im Keller del provocatore viennese Ulrich Seidl (già Premio Speciale della Giuria a Venezia69 con lo scandaloso Paradiso: Fede): con il suo usuale stile distaccato e sardonico caratterizzato da ineludibili long take fissi e frontali, l’autore di Canicola si aggira fra i territori inesplorati e insospettabili delle cantine austriache, sguazzando come un monello nelle pozzanghere in un microcosmo di schifo quotidiano a base di melomani beoni neo-nazi, feticisti di piogge dorate e di tazze del water, dominatrix semi-frigide, attiviste masochiste, ciccioni, vecchiacce inquietanti, derelitti e altri casi umani. La chiave di tutto è un senso di grottesco spinto ancora una volta verso un punto di non ritorno sempre più avanti del capitolo filmografico che lo precede, consapevolmente aberrante e compiaciuto ma con l’indubbia capacità di mostrare l’impresentabile e di dare un nome inquietantemente simile al nostro il passo successivo (e inevitabile?) della degradazione antropologica.
Im Keller, oggetto alieno e assolutamente ingiudicabile, chiude la mattinata come un mattone in piena bocca e ci permette di continuare la Mostra con la certezza di esserci lasciati il peggio – non dal punto di vista artistico, si intenda – alle spalle.

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