Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Enzo Righi (Vincenzo Salemme) è un cinquantenne spiantato che vivacchia cantando sulle navi da crociera, perennemente in fuga dai numerosi creditori che rivendicano il saldo dei suoi debiti di gioco.
Alla morte della madre l’uomo torna a Napoli, per la prima volta dopo trent’anni, per la lettura del testamento, con la speranza di appianare le proprie difficoltà economiche attraverso un’eventuale eredità.
La realtà che si trova ad affrontare però è ben diversa dalle aspettative.
L’unico lascito è infatti una casa in cui, su specifica volontà della madre, Enzo sarà costretto a coabitare con i suoi due fratelli, Stefano (Carlo Buccirosso) e Cico (Nando Paone), quest’ultimo affetto da una rara forma di schizofrenia che lo porta a impersonare decine di personaggi immaginari e, di fatto, ad avere bisogno di assistenza continua da parte dei fratelli.
La forzata convivenza porterà, oltre ad una serie di situazioni comiche, anche l’ombra di una possibile responsabilità esterna sui reali motivi della morte della madre.
Doppio ritorno al passato per Vincenzo Salemme che, dopo le ultime scialbe regie (SMS – Sotto mentite spoglie e No Problem erano francamente inguardabili) e forse troppe partecipazioni a film di Vanzina, decide di portare al cinema uno dei suoi primi lavori per il teatro e, nel farlo, di riunire la compagnia di attori di un tempo, sciolta ormai da più di dieci anni.
Ecco quindi tornare sullo schermo, insieme all’autore che li ha lanciati, Nando Paone, Maurizio Casagrande e quel Carlo Buccirosso che nel frattempo – complice Paolo Sorrentino – è diventato uno dei migliori caratteristi in circolazione.
A questa sorta di rivendicazione delle proprie origini meno smaccatamente commerciali non corrisponde però un risultato all’altezza delle (in realtà già scarse) aspettative.
Salemme infatti si limita qui a filmare il già visto, senza preoccuparsi di conferire al testo una cornice dotata di qualcosa che ricordi anche lontanamente un respiro cinematografico ma, anzi, spogliando la pièce teatrale di tutte le sue inflessioni più malinconiche per privilegiarne invece la vena più ridanciana e facilona.
Il risultato è una sequela piuttosto serrata di siparietti comici da avanspettacolo e calembour linguistici che i tre protagonisti sembrano reiterare pigramente nel tentativo di strappare sporadiche risate.
Sono gli stessi attori a non sembrare particolarmente convinti o legati al progetto, in primis Buccirosso che in genere è esilarante anche quando costretto in ruoli di puro contorno (basti pensare ai dieci minuti iniziali di Song ‘e Napule) e che qui invece offre una delle performance più monocordi e stanche della sua carriera.
C’è un solo momento poi in cui …E fuori nevica! corre il serio rischio di elevarsi in parte dalla medietà che lo contraddistingue fino a quel momento ed è il finale. Un possibile epilogo in cui il buonismo, distribuito a pioggia nell’arco di tutta la durata del film, potrebbe virare verso la commedia nera e che, con sadica puntualità, Salemme rovina giustapponendogliene un altro, molto “volemose bene”, che sembra preso da un qualsiasi film di Pieraccioni.
Ed è proprio a quel punto che i conti tornano perfettamente e si realizza che Vincenzo Salemme, seppure depositario di un curriculum artistico a cui Pieraccioni non potrebbe ambire nemmeno in dieci vite, soffre della stessa stasi creativa del regista de Il Ciclone.
Sostanzialmente l’incapacità – se non proprio la mancanza di volontà – di spostarsi anche solo di un millimetro da quanto di buono si sia stati capaci di fare, magari per provare a forzare un po’ i limiti del proprio talento e, con questi, anche i gusti del proprio pubblico di riferimento.
Voto 4
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