Festival di Roma 2014 – Giorno 5

Di Fabio Giusti
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Dopo l’assalto al tappeto rosso che ieri sera ha preceduto le proiezioni per il pubblico di Time Out of Mind e di Escobar: Paradise Lost e il conseguente bagno di folla toccato ai rispettivi protagonisti Richard Gere e poi Josh Hutcherson e Benicio Del Toro, abbiamo iniziato a contare le ore che ci separavano dalla visione di Gone Girl.



L’AMORE BUGIARO – GONE GIRL di DAVID FINCHER

Alzarsi di buon’ora e iniziare la giornata con un film di David Fincher è semplicemente qualcosa che dovrebbe accadere più spesso. Oggi è andata così e abbiamo dato il la a questo quinto giorno di Festival con L’amore bugiardo – Gone Girl (nelle nostre sale dal 18 dicembre), ultima pellicola del regista di Seven, Fight Club, Zodiac, The Social Network e tante altre meraviglie. Tratto dal best-seller di Gillian Flynn, che è anche autrice della sceneggiatura, il film ruota attorno alla storia di un uomo (Ben Affleck) accusato dell’omicidio della moglie scomparsa (Rosamund Pike), mentre la coppia si accinge a festeggiare il quinto anniversario di matrimonio. Di più non vi diremo perché ogni altro dettaglio rovinerebbe le mille sorprese che Gone Girl si porta dietro.
Con una precisione chirurgica e un incedere ipnotizzante che non molla la presa per tutti i suoi 149 minuti di durata, il nuovo thriller di David Fincher mette in scena tutte le tematiche care al regista esprimendo appieno il cinismo e l’apparente imperturbabilità che campeggia nelle sue pellicole: violenza, inganni, cambi di prospettiva, stravolgimenti di vite ordinarie, assenza di una morale dominante, il ruolo fondamentale dei media nella società contemporanea e l’elemento del mostruoso, che è sempre in agguato.


Raccontando la crisi della società contemporanea attraverso quella del matrimonio di Nick e Amy, che nelle sue mani demiurgiche diventano gelidi protagonisti che riflettono della luce e dei sentimenti dei comprimari, decisamente più simili a personaggi cinematografici con i quali siamo abituati a empatizzare, Fincher mescola le carte in tavola, lo fa più di una volta e si diverte a spostare il baricentro della storia portando chi guarda a chiedersi non tanto cosa sia accaduto ad Amy ma piuttosto chi siano davvero Nick e la sua perfetta e algida mogliettina. Mostrando pieno controllo sull’enorme quantità di materiale di cui si compone il film (e concedendosi un paio di scivoloni “contenutistici” solo nel finale), Fincher lo plasma come fosse plastilina e lo marchia a fuoco con la sua inconfondibile cifra stilistica. E quando tutto finisce, non possiamo far altro che accettare l’illogicità e i compromessi ai quali siamo costretti a sottostare, fino ad abbracciarli e a viverci accanto, senza la possibilità di reagire in alcun modo.

Ben Affleck non aveva un ruolo così calzante da quando ha interpretato George Reeves in Hollywoodland, ma la vera sorpresa del film è Rosamund Pike, fino ad ora relegata in ruoli piuttosto marginali (Orgoglio e pregiudizio, La versione di Barney, Jack Reacher – La prova decisiva) che in Gone Girl esplode in tutta la sua poliedricità (chi l’avrebbe mai detto?). Il suo è un ruolo hitchcockiano denso e bellissimo, al quale forse avrebbe potuto aspirare una Grace Kelly dei tempi d’oro e che l’attrice inglese porta avanti con una risolutezza e una potenza tali da aspettarci di ritrovarla il 22 febbraio prossimo sul palco dell’Academy.

Voto 8

SOUL BOYS OF THE WESTERN WORLD di GEORGE HENCKEN

A rivederli oggi, coi pantaloni a cono e quei giganteschi foulard colorati, viene quasi da sorridere ma c’è stato un tempo in cui gli Spandau Ballet si contendevano coi Duran Duran il titolo di gruppo pop più famoso del mondo.
Il documentario Soul Boys of the Western World di George Hencken ci racconta proprio quell’epoca, iniziata all’ombra del punk nella seconda metà dei Settanta e proseguita poi per tutto l’arco degli edonistici anni ottanta, e lo fa con una buona selezione di materiale d’archivio che, a un’analisi prettamente musicale del periodo, preferisce il contesto storico e sociale che, di fatto, favorì la nascita di una serie band – delle quali gli Spandau Ballet rappresentano una sorta di idealtipo – che alla sostanza (ché, col senno di poi, in diversi brani c’era pure) preferivano di gran lunga l’immagine.
Risultano interessanti, in quest’ottica, le stesse cause del declino degli Spandau, dovuto più a problemi legati a royalties e diritti d’autore, che non all’abusato (e molto più rock and roll) binomio droghe/donne.
Piace del film di Hencken il suo raccontare un lato, per certi versi, marginale del music business ma non per questo meno interessante, mentre delude un po’ la veste formale povera di respiro cinematografico e più vicina, nel taglio, a certi speciali monografici di MTV.
A corollario dell’intero progetto, una nuova reunion della band (presente oggi a Roma per accompagnare il film) con conseguente tour mondiale.

Voto 6


I GUARDIANI DELLA GALASSIA di PETER GUNN

La Marvel che vorremmo sempre, in un film che non è solo una sequela di effetti speciali ma anche divertimento puro, grazie a personaggi ben costruiti e ben tradotti dalla carta, e a una valanga di citazioni e riferimenti alla cultura pop. Non a caso alla regia troviamo Peter Gunn, che si è fatto le ossa alla Troma.
La storia è quella di un gruppo improbabile di eroi che ruota intorno all’ancor meno probabile Peter Quill (Chris Pratt, qui al ruolo svolta della sua carriera), un pirata spaziale al quale viene chiesto di recuperare un misterioso artefatto. Con lui, tra gli altri, il procione umanoide Rocket e lo strambo uomo-albero Groot, che da soli riescono quasi a reggere l’intero film.
E’ chiaro che c’era bisogno davvero di andare a pescare nelle serie Marvel meno conosciute per offrire qualcosa di nuovo e fresco al genere: missione compiuta.

Voto 8

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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