Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Chi conosce un po’ Richard Linklater sa bene quanto il tempo per lui sia una sorta di ossessione. Sin dagli esordi infatti il regista texano ha focalizzato i suoi lavori sullo scorrere delle ore (nel 1991 con Slacker, l’esperimento narrativo che segue una giornata della vita di alcuni giovani sfaccendati in quel di Austen), che poi sono diventate anni (la trilogia romantica iniziata nel 1995 con Prima dell’alba e terminata lo scorso anno con Before Midnight) e che con Boyhood si sono trasformati in decenni. Così mentre ci faceva innamorare con le infinite chiacchierate tra Jesse e Celine, ballare e divertire a tempo di musica in School of Rock e ci mostrava che che cosa fosse il rotoscoping con A Scanner Darkly, Linklater contemporaneamente preparava il suo capolavoro.
Per realizzare la sua ultima pellicola (Orso d’Argento per la miglior regia a Berlino 64 ) il regista ha girato una manciata di scene ogni anno per dodici anni: lo stesso cast, che dall’estate del 2002 all’ottobre del 2013 vediamo crescere, maturare e invecchiare, davanti ai nostri occhi, in un unico film. Proprio per questo motivo non ci troviamo davanti a un’opera canonica, convenzionale, nel senso che Boyhood ha avuto un processo produttivo talmente anomalo che sarebbe riduttivo parlarne come se fosse uno dei tanti film che arrivano in sala. Così come lo sarebbe altrettanto etichettarlo come un semplice esperimento cinematografico. Siamo davanti ad un prodotto davvero unico, il cui autore ha deciso di mettere da parte ogni trucco, inganno e svolta narrativa per concentrarsi sull’elemento “tempo” in ogni sua declinazione: i momenti, la ciclicità, le durate, i lassi e gli intervalli.
Impariamo così a conoscere Mason (Ellar Coltrane), un bambino di otto anni, sua sorella maggiore Samantha (la figlia del regista, Lorelai Linklater), sua madre Olivia (Patricia Arquette) e suo padre Mason Sr. (un incredibile Ethan Hawke). Siamo con Mason e con la sua sgangherata famiglia nei suoi anni cruciali e lo accompagnamo nel non facile passaggio all’età adulta. Di sottofondo, un’America smarrita che attraversa, proprio come il giovane protagonista, un decennio cruciale che va dal post 11 settembre alla seconda elezione di Obama, passando per la guerra in Iraq e la crisi economica. Un decennio segnato dall’inizio, dallo sviluppo e dalla fine della saga di Harry Potter, dal passaggio dal joystick al motion gaming e da Britney Speras a Lady Gaga.
Uno dei punti forti di Boyhood è sicuramente la scelta di voler far arrivare allo spettatore un’idea del tutto personale di cinema verità, scegliendo di non mostrare quei momenti della vita di Mason socialmente ritenuti importanti (come ad esempio il primo bacio o la consegna del diploma), che sarebbero risultati falsi in un progetto del genere, optando invece per la semplicità del quotidiano: le liti con la sorella, il rapporto con i genitori separati e quello con i vari compagni di sua madre. Tutto scorre con una sorprendente fluidità, la regia è impeccabile così come lo sono gli interpreti. E, superata la sensazione di straniamento che la visione di un’opera simile può suscitare, continueremo a pensare a Boyhood come al racconto di formazione più intimo e anticonvenzionale che sia mai arrivato al cinema.
Voto 8
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
Richard Linklater porta al cinema la sua opera più ambiziosa e monumentale: un film lungo dodici anni. Tra poesia e sperimentazione.
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