Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Una volta tanto, partiamo dalla tagline che campeggia sulla locandina italiana del film: “L’ultima magistrale interpretazione di Philip Seymour Hoffman“. Iniziamo da qui peché si tratta di uno dei pochissimi casi in cui su un manifesto c’è una scritta veritiera. E non lo diciamo perché l’attore in questione non c’è più. Sarebbe davvero troppo facile. Ma perché ci piace pensare che la sua vita sia stata un po’ come molti dei personaggi che ha interpretato, magnificamente eccessivi, fragili, emotivi e incredibilmente reali. Come la spia tedesca Günther Bachmann. A lui tocca il lavoro sporco, a lui e alla sua squadra che si muove nell’ombra di una gelida Amburgo, in attesa che abbocchi il pesce piccolo che li porterà allo squalo. Il pesciolino in questione è un giovane ceceno Yssa Karpov (Grigoriy Dobrygin), arrivato nella città per riscuotere un’eredità e che nasconde un passato doloroso. Insieme all’aiuto del banchiere Tommy Brue (Willem Dafoe) e ad Annabel (Rachel McAdams), l’avvocatessa del giovane, compito di Bachmann e collaboratori è capire per che cosa verranno usati i soldi che Yssa devolverà ad un gentleman che secondo le loro teorie usa aziende e associazioni benefiche come copertura di passaggi finanziari per attività terroristica. Naturalmente, ci si metterà in mezzo anche la CIA, nella persona dell’agente Martha Sullivan, una Robin Wright di ferro e insolitamente bruna.
Tratto dal romanzo di John Le Carré Yssa il buono, uno spy-thriller di quelli gelidi e geometrici che segue perfettamente lo stile a cui lo scrittore inglese ci ha abituati, La spia è una storia semplice, tutto sommato poco intricata se consideriamo gli altri romanzi del suo autore e il genere a cui appartiene, con dialoghi radi e attori che colpiscono nel segno come una squadra di cecchini.
Esattamente come il romanzo, la pellicola cerca poco l’azione, preferendo l’introspezione tipica dello spionaggio classico fatto di elucubrazioni e ponderatezza. Privo di banalità come di colpi di scena (anche se un coup de théâtre finale avrebbe fatto bene al film) Anton Corbijn – fotografo e regista di celebri videoclip oltre che di Control, film su Ian Curtis, leader dei Joy Divisions, e del thriller The American – si sofferma sull’immigrazione in Germania, su ciò che del mondo islamico arriva in occidente, sui servizi segreti europei ed americani e sugli animi dei personaggi chiamati a prestare il volto a ciascuna di queste realtà.
Ma la spia è lui, Seymour Hoffman, e la macchina da presa di Corbijn lo segue per le strade di una città frigida, che non sembra accorgersi della sua presenza, delle mille sigarette, dei caffè corretti e della sua totale mancanza di vita privata. Quello della spia è uno sporco lavoro che qualcuno deve pur fare e lui lo fa al meglio. Anche in questo caso dell’attore grassoccio dagli occhi sottili non rimane traccia: scompare tra la scenografia. Rimane solo Günther Bachmann con le sue strategie, illuminato da gelidi neon.
Siamo lontani dal rigore formale de La talpa, di Tomas Alfredson, di cui questo A Most Wanted Man è una sorta di fratellino minore, per virtuosismi registici e soprattutto per la storia da cui è tratto, decisamente meno densa e consistente. Ma è anche vero che se le cose fossero andate in modo differente, se Hoffman non fosse scomparso in quel modo lo scorso febbraio, avremmo percepito questo film in modo diverso, sicuramente con meno coinvolgimento. E forse uscendo dalla sala, dopo aver trascorso due ore a guadare una pellicola discreta, ci saremmo interrogati sul prossimo personaggio del caro vecchio Phil. Un personaggio che, ora lo sappiamo, non vedremo mai.
Voto 7
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
L’uscita di scena di Philip Seymour Hoffman passa attraverso questa spy story di stampo classico nata dalla penna di John Le Carré.
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