Mio papà

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Lorenzo (Giorgio Pasotti) fa il sommozzatore su una piattaforma petrolifera al largo della costa adriatica. Ogni tanto, di sera, torna sulla terra ferma per un giro al pub e l’avventura di una notte, ma nulla di serio. Nulla che lo spinga a fermarsi a dormire dalla ragazza di turno. Quello mai.
Almeno fino a quando non incontra Claudia (Donatella Finocchiaro) e se ne innamora, nonostante questa porti in dote Matteo, un figlio di sei anni assai recalcitrante, sulle prime, all’idea che la madre frequenti un “estraneo”.
Il rapporto tra Lorenzo e il bambino, nato all’insegna di una scarsa voglia di accettarsi reciprocamente, si trasforma poi piano in una forma di complicità silenziosa fatta di gesti spesso minimi ma che portano i loro due mondi a non riuscire più a fare a meno l’uno dell’altro.



Nato da un’idea di Giorgio Pasotti, Mio papà segna il ritorno alla regia cinematografica di Giulio Base dopo una lunga militanza nella fiction televisiva (sue le regie del Padre Pio con Michele Placido e di diversi episodi di Don Matteo) e arriva in sala a un mese dalla sua presentazione all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma (sezione Alice nella città).
La pellicola, senza troppi preamboli, è deludente e sciorina, nella sua ora e mezza di durata, un campionario di tutti i luoghi comuni nei quali ci piacerebbe che il cinema italiano non cadesse mai: retorico, didascalico e telefonatissimo in ognuno dei suoi (pochi) scarti narrativi.
Nel tentativo di descrivere la trasformazione di Lorenzo, agli occhi del bambino, da “fidanzato di mamma” a “papà”, Giulio Base ci mostra una serie interminabile di facce assorte e pensose, dialoghi scritti con la mano sinistra (perfino la altrove bravissima Finocchiaro mostra il fiato corto nel rendere vive e credibili certe frasi) e buoni sentimenti un tanto al chilo.

Operina esilissima dallo stile pressoché nullo, Mio papà è il possibile (ma non auspicabile) pilot di una serie TV di Rai Uno – ché Canale 5 sarebbe già troppo – sul tema delle famiglie allargate e sulla problematica dei diritti dei genitori acquisiti, anche lodevole nelle intenzioni ma del tutto incapace di avvincere o anche solo di incuriosire appena.
I tempi dilatati che, almeno in teoria, dovrebbero scandire la lenta quotidianità del protagonista, diventano ben presto difetto, fino ad apparire più che altro come un escamotage utile a spalmare le poche e trascurabili idee di base lungo un minutaggio che travalichi i canonici quarantacinque minuti della serialità televisiva.
Alla fine ne esce dignitosamente giusto Giorgio Pasotti che, in quanto promotore del progetto, cerca di salvare il salvabile e Ninetto Davoli per il semplice fatto che è sempre e comunque bello vederlo in un film.
Il cinema italiano, in ogni caso, non è qui.

Voto 4

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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