Magic in the Moonlight

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Per te io sono ateo, ma per dio io sono una leale opposizione (Woody Allen)



Dopo le atmosfere splendidamente cupe di Blue Jasmin, raffigurazione impeccabile della caduta sociale e mentale di una donna ai tempi della crisi economica, Woody Allen si prende un attimo di respiro e ritorna con un po’ più di leggerezza a rifugiarsi nel passato per raccontare una storia dai colori tenui, incentrata su amore, magia e l’irresistibile desiderio di abbandonarsi a quest’ultima per sopravvivere.
Alle note di You Do Something To Me di Cole Porter il compito di introdurci nelle atmosfere del suo quarantaquattresimo film da regista. Siamo alla fine dei ruggenti anni Venti e il celebre illusionista inglese Stanley Crawford (Colin Firth), noto con il nome di Wei Ling Soo, viene invitato in Francia da un suo amico al fine di smascherare una giovane medium americana tanto dotata e capace di incredibili prodigi quanto affascinante. Crawford è un uomo tutto d’un pezzo, razionale e dall’ego smisurato, che non crede alla vita dopo la morte e che si attiene a ciò che vede. Inutile dire che per lui la giovane Sophie (Emma Stone) non è nient’altro che una scaltra truffatrice giunta in Francia per mettere le mani sul denaro della facoltosa famiglia che sta ospitando lei e sua madre.

Magic in the Moonlight è una pellicola connotata da forti dualismi, come nella migliore tradizione alleniana, in cui magia e razionalità, ragione e sentimento, cultura britannica e cultura yankee si fronteggiano e finiscono per contaminarsi, amalgamamandosi, e divenendo qualcosa di diverso, complesso e migliore.
Rubacchiando a piene mani dalla sua filmografia (da La rosa purpurea del Cairo a La maledizione dello scorpione di giada) così come dalle screwball comedy di Howard Hawks (Susanna e La signora del venerdì su tutte) il regista newyorkese firma solo apparentemente una delle sue opere più leggere e impalpabili.

La dizione british di Firth regala sottili sfumature (così come quella di Eileen Atkins nei panni della vecchia zia), facendo emergere ancora di più le differenze sociali e culturali tra il personaggio dello smascheratore Crawford e quello di Sophie, tutta occhioni e abitini plissettati, le cui lacune culturali rappresentano un’arma di seduzione pigmalionica irresistibile per il razionale Stanley. Per non parlare della graziosissima Emma Stone che, qui come in Birdman, ci regala una performance tanto matura quanto disincantata: altro che la fidanzatina di Spider-Man!
Potendo quindi contare su un valido cast che non annovera se stesso, ma che lo rievoca continuamente nella figura e nelle nevrosi di Stanley Crawford, Allen incastona in location da cartolina una delle sue storie forse meno sagaci ma comunque gradevole e ben strutturata: non un pugno assestato alla bocca dello stomaco quale era stato Blue Jasmine, ma un invito alla presa di coscienza mascherato da commedia romantica, colpevole solo di possedere scarso mordente e di non apportare novità significative, sia strutturali che formali, alla folta e variegata filmografia del regista.

Non è un caso, poi, che nei film di Allen, la magia sia un elemento costante: l’episodio da lui diretto in New York Stories, Alice, Scoop e il già citato La maledizione dello scorpione di Giada erano pervasi da incantesimi e sparizioni, da ipnotizzatori e sedicenti guaritori. Il piccolo Woody sognava infatti di fare il mago, da grande. Ma dopo aver trascorso ore chiuso nella sua stanza ad esercitarsi con conigli, cilindri e carte da gioco, è arrivata un’altra magia, quella del cinema, che lo ha preso con sé. Riuscite a immaginare un mondo migliore per uno che alla soglia degli ottant’anni continua a sfornare un film l’anno? Noi proprio no.

Voto 6

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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